Sebbene i primi quadri, spesso piccolo-borghesi, del proletariato in formazione fossero meno raffinati dal punto di vista teoretico rispetto alla sinistra hegeliana, essi non si baloccavano con concetti astratti, ma s’adoperavano per una loro sperimentazione pratica, ancora inadeguata in quanto fondata su basi concettuali assai deboli. Come chiarisce Marx nella seconda Tesi su Feuerbach: “nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica”. Qui Marx non contrappone la prassi alla teoria, ma fa della prassi un elemento integrante dell’elaborazione teorica, mentre la teoria riceve dalla prassi la prova della sua validità. La verità del pensiero è il potere del pensiero, che consiste nella sua capacità di trasformare la realtà. Perciò Marx e Friedrich Engels non si definiscono socialisti, ma comunisti, in quanto in quel periodo mentre le concezioni socialiste erano espressioni utopistiche di movimenti intellettuali, il movimento comunista, pur nella sua rozzezza, era già un’espressione del movimento operaio e rivendicava una trasformazione radicale, con mezzi rivoluzionari, della società. Come osserva il giovane Marx: “Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primamente come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo, è diventato scopo” [1].
Marx, dunque, accetta la sfida che ha reso grande l’idealismo tedesco, che aveva riflettuto – da Kant a Fichte a Hegel – sull’uomo d’azione francese che aveva rivoluzionato il corso del mondo. Più nello specifico, Marx interpreta il processo rivoluzionario che va dal 1789 al 1848 come uno svolgersi in contraddizione dell’opposizione hegeliana fra società civile e stato. Perciò, osserva Marx: “i Tedeschi hanno pensato nella politica ciò che gli altri popoli vi hanno operato. La Germania era la loro coscienza teorica” [2]. Marx, dunque, sviluppando le riflessioni in proposito di Hegel, sostiene che i tedeschi siano “i contemporanei filosofici dell’epoca presente senza esserne i contemporanei storici. (…) La filosofia tedesca del diritto e dello Stato, è l’unica storia tedesca che stia al pari con l’autentica epoca presente” [3].
Il sistema hegeliano poteva essere riaperto solo mediante il processo dialettico in cui il razionale si immerge nuovamente nel reale, fino a perdersi nel suo oggetto. Solo perdendosi nella tragica dialettica con lo sviluppo del mondo storico, può ritrovarsi, gettando così le basi d’una visione del mondo più complessa in quanto maggiormente concreta. In effetti, “il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi, unità del molteplice. Per questo, esso apparve nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima via, la rappresentazione piena viene volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. È per questo che Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero che, partendo da se stesso, si riassume e si approfondisce in se stesso, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è il solo modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso. La più semplice categoria (…) non può esistere altro che come relazione unilaterale, astratta di un insieme vivente e concreto già dato” [4].
Tanto più che per Hegel «come essenza posta e quindi da sopprimere dell’estraniazione vale non già che l’essere umano si oggettivizzi in modo disumano, in opposizione a se stesso, ma il fatto che si oggettivizza differenziandosi e opponendosi al pensiero astratto” [5]. In modo analogo “il signor Proudhon non ci dà una falsa critica dell’economia politica perché possiede una teoria filosofica assurda, ma ci dà una teoria filosofica assurda perché è incapace di comprendere la situazione sociale odierna” [6]. Del resto, “per la coscienza – e la coscienza filosofica è così fatta, che per essa il pensiero pensante è l’uomo reale, e quindi il mondo pensato è, in quanto tale, la sola realtà – il movimento delle categorie appare quindi come l’effettivo atto di produzione (il quale purtroppo riceve soltanto un impulso dal di fuori) il cui risultato è il mondo; e ciò è esatto in quanto – ma qui abbiamo di nuovo una tautologia – la totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, è in fact un prodotto del pensare, del comprendere; ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione, bensì dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e della rappresentazione” [7]. Marx ne deduce che “da questo punto di vista si può quindi dire che la categoria più semplice può esprimere i rapporti predominanti in un insieme poco sviluppato oppure i rapporti subordinati di un insieme più sviluppato; rapporti che storicamente esistevano già prima che l’insieme si sviluppasse nella direzione espressa da una categoria più concreta. In questo senso, il cammino del pensiero astratto, che sale dal semplice al complesso, corrisponderebbe al processo storico reale” [8]. Così, osserva ancora a tal proposito Marx, “benché la categoria più semplice possa essere esistita storicamente prima di quella più concreta, essa può appartenere nel suo pieno sviluppo intensivo ed estensivo solo a forme sociali complesse, mentre la categoria più concreta era già pienamente sviluppata in una società meno evoluta” [9]. Allo stesso modo, “le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo del concreto, dove una caratteristica appare comune a un gran numero, a una totalità di fenomeni. Allora, essa cessa di poter essere pensata soltanto in una forma particolare” [10]. Così, osserva ancora Marx, “l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società più moderna. Si potrebbe dire che ciò che negli Stati Uniti appare come un prodotto storico, – questa indifferenza verso un lavoro determinato – nei russi per es. appare come una disposizione naturale” [11]. Perciò “la società borghese è la più complessa organizzazione storica della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti e che fanno comprendere la sua struttura, permettono quindi di capire al tempo stesso la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in quelle era appena accennato si è svolto in tutto il suo significato ecc. L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia. Invece, ciò che nelle specie animali inferiori accenna a qualcosa di superiore può essere compreso solo se la forma superiore è già conosciuta” [12]. In modo analogo mediante la conoscenza del proletariato francese Marx comprende che è proprio il proletario a permettere di comprendere il borghese e, in questo modo, Marx supera i limiti idealistici di Hegel.
Ciò consente a Marx di rielaborare, nel senso d’una sua concretizzazione, l’opposizione fondamentale della Rivoluzione francese e della Filosofia del diritto hegeliana fra società civile e Stato. I due termini sono riconsiderati non solo nel loro fondamento ideale, politico, sovrastrutturale ma altresì in quello reale, sociale, strutturale. La società civile a partire dal XVI secolo ha subito una metamorfosi che la ha spinta a un’opposizione sempre più evidente con lo stato politico che ne ostacolava lo sviluppo. Fin qui era giunta l’analisi di Hegel, che non aveva svolto l’opposizione in contraddizione, gettando le basi d’un nuovo fondamento, ma aveva cercato vanamente di ricomporla sottoponendo gerarchicamente il borghese al cittadino. Rimanendo occultato il fondamento sociale non emergeva il dato essenziale del conflitto, la contrapposizione fra classi sociali con interessi, necessariamente, antitetici.
Non si trattava d’una opposizione ancora confinabile – anche se non veramente sanabile – nelle compatibilità sistemiche, ma d’una contraddizione reale, che metteva radicalmente in discussione l’esistenza stessa del sistema. Tale contraddizione si sviluppava nella forma della “lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese” fra classi sociali. Perciò, come sottolineano Marx ed Engels, “la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. (…) in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta” [13].
Note:
[1] Karl Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844 a cura di Norberto Bobbio, Giulio Einaudi editore, Torino 1968, p. 137.
[2] Id., Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione [1843], in Id., Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Einaudi, Torino 1975, p. 403.
[3] Ivi: 403.
[4] Id., Introduzione a “Per la critica dell’economia politica” [1857], in Marx-Engels, Le opere, Editori Riuniti. Roma 1971, p. 731.
[5] Id. Manoscritti…, op. cit., p. 165.
[6] Id., Lettera ad Annenkov, 28 dicembre 1846, in in Marx-Engels, op. cit., pp. 277-78.
[7] Id., Introduzione a…, op. cit., pp. 731-32.
[8] Ivi, p. 733.
[9] Ivi, pp. 733-34.
[10] Ivi, pp. 734-35.
[11] Ivi, p. 735.
[12] Ivi, pp. 735-36. “Sarebbe dunque inopportuno ed erroneo”, prosegue Marx, “disporre le categorie economiche nell’ordine in cui furono storicamente determinanti. La loro successione è invece determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questo ordine è esattamente l’inverso di quello che sembra essere il loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico” Ivi, p. 738.
[13] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, tr. it. di P. Togliatti, in id., Opere, cit., vol. VI, p. 486.