Rabbia e sdegno per la sentenza che assolve tutti gli imputati del disastro umano ed ambientale causato dalla Montedison a Bussi sul Tirino.
di Selena Di Francescantonio
A circa un mese di distanza dalla ormai tristemente nota sentenza Eternit, ci troviamo nuovamente di fronte all’ennesimo caso di cronaca giudiziaria conclusosi con una sentenza altrettanto indecorosa: l’assoluzione di tutti i 19 imputati nel processo sulla megadiscarica di Bussi sul Tirino (Pescara), accusati di avvelenamento delle acque e disastro ambientale.
Al centro del mirino un’azienda potentissima, la ex Montedison, e l’azienda belga Solvay: I dirigenti e i tecnici di entrambi i colossi sono finiti sott’accusa in questo processo complicato, avviatosi ufficialmente nel 2007 a seguito delle indagini effettuate dal Corpo Forestale dello Stato che portarono alla scoperta di quella che probabilmente è la discarica di veleni più grande d’Europa (500mila tonnellate di rifiuti tossici: l’equivalente di 20 campi di calcio). “Inquinamento della falda acquifera superficiale e profonda con sostanze tossiche e cancerogene che superano i limiti di legge di centinaia di migliaia di volte, diossina nei terreni e contaminanti che continuano a fuoriuscire dall’area” , fu l’inquietante diagnosi del Comitato provinciale di Pescara della Forestale.
Nella verdeggiante valle attorno all’ex sito chimico di Bussi dove è collocata l’amena discarica in questione, si trova inoltre il punto di confluenza degli acquiferi più importanti dell’intera regione Abruzzo - acque provenienti dal Gran Sasso e dalla Maiella -, e quell’acqua contaminata è stata con ogni probabilità utilizzata da migliaia di famiglie, ignare del fatto che dai loro rassicuranti rubinetti uscissero fiotti di clorometano e derivati.
Se si pensa, poi, che lo sversamento di sostanze tossiche in quella valle ha consentito all’azienda di risparmiare parecchio sui costi di smaltimento sin dal lontano 1963, si giunge all’angosciante (ancorché affatto sorprendente) conclusione che sono più di 40 anni che si specula e si fanno ingenti profitti ai danni non solo dell’integrità e della salute dell’ambiente in cui viviamo ma anche sulle vite delle persone. Ricorda qualcosa? Con leggere sfumature la solfa è sempre la stessa: dall’Ilva di Taranto, all’Eternit che ha ucciso due volte fino alla discarica di Bussi.
Quando nel 2002 il sito chimico abruzzese passò nelle mani della belga Solvay, fu subito chiaro che si sarebbe assistito ad un patetico balletto di responsabilità, in cui i nuovi dirigenti accusavano i vecchi di avere ereditato un sito inquinato ed entrambi si dichiaravano comunque completamente estranei ai fatti, anche quando, in tempi recenti e dietro esplicite sollecitazioni da parte del Ministero, la Solvay ha completamente omesso di effettuare qualsiasi operazione di bonifica della zona. Tutto questo mentre la gente continuava a morire.
Venne stabilito che il costo della bonifica dell’intera zona contaminata ammontava a circa 80milioni di euro ma, inspiegabilmente, anziché procedere in questa direzione dopo anni di battaglie, processi e rivendicazioni, la “proposta” che il Social Forum Abruzzese dei movimenti dell’Acqua Pubblica dovette ascoltare fu invece quella di destinarne 50 di questi milioni alla bonifica e reindustrializzazione unicamente del sito di Bussi.
Il motivo? Banalmente, favorire tramite l’utilizzo di soldi pubblici il subentro di un altro imprenditore privato (nella fattispecie si trattava di Carlo Toto), gettando letteralmente una soletta di cemento sopra ai terreni inquinati e procedendo alla costruzione di una nuova area industriale ex novo, come se nulla fosse successo e tanti cari saluti. Con buona pace del resto delle zone da bonificare da cima a fondo.
Agli atti del processo c’era anche una relazione dell’Istituto Superiore di Sanità, depositata nello scorso gennaio ma che riesaminava i dati raccolti nel corso di questi anni in merito alla situazione di pericolo per la salute. Viene riportato che “l’acqua contaminata è stata distribuita a un vasto territorio e a circa 700mila persone senza controllo, persino a ospedali e scuole”: una stima che senz’altro permise all’Avvocatura dello Stato di poter definire il pericolo per la salute quantomeno “concreto e reale”. Tutto questo evidentemente non è bastato a convincere i giudici della Corte d’Assise di Chieti che invece hanno ritenuto di dover considerare gli imputati addirittura assolti per quanto riguarda l’accusa di avvelenamento delle acque e non colpevoli a causa della sopravvenuta prescrizione per quanto riguarda il reato di “delitto colposo di danno” ex art. 449 codice penale. Originariamente questo capo d’imputazione faceva riferimento alla fattispecie dolosa del suddetto reato ma, nonostante il danno ambientale ci sia stato e ne sia stata accertata l’entità, la Corte ha derubricato il reato posto a carico degli imputati.
Il 26 febbraio scorso la Camera ha approvato un disegno di legge sui delitti contro l’ambiente (ddl 1345) senza l’opposizione di nessun partito politico (M5S compreso).
Il progetto, che deve ancora terminare la sua gestazione in Parlamento, mira ad introdurre, fra le varie cose, il reato specifico di disastro ambientale; il che sarebbe, di per sé, una buona notizia se non fosse per il fatto che andrà a configurarsi una situazione grottesca (così come illustrato nelle angeliche intenzioni del nostro legislatore): il suddetto reato si configurerebbe esclusivamente in ragione della rilevanza oggettiva del fatto, che dovrebbe assumere i tratti di una sorta di enorme disastro irrimediabile per estensione del danno e numero di persone coinvolte o esposte a pericolo, escludendo per forza di cose situazioni altrettanto gravi ma più nebulose ovvero situazioni in cui non sia possibile quantificare, dimostrare con esattezza il “numero” dei coinvolti o dei danni effettivi. Insomma o il pericolo è estremamente circostanziato e definito, avvalorato da specifici dati, o altrimenti si passa dall’imputazione per tentato cataclisma alla imputazione per “danni” che esulano dall’applicazione di pene più severe perché “non meglio circostanziati”. Per gli inquinatori peraltro sarebbe estremamente facile svincolarsi, considerato che nel ddl non c’è chiarezza sull’onerosità dei ripristini e si configura inoltre l’istituto del “ravvedimento operoso dell’inquinatore”.
Per realizzare quella sorta di salvazione, il ddl procede a statuire rilevanti sconti della pena (fino ai due terzi) per i cattivoni pentiti che cercano redenzione per i reati commessi se si dichiarano d’accordo a procedere a una qualche forma di bonifica.