Purtroppo non c’è proprio nulla da festeggiare e nemmeno da celebrare. Questo generoso movimento, sorto nel 1991 dalle ceneri del Pci, ha dato vita a un percorso politico che pare oggi finito in un binario morto. A maggior ragione oggi ci sarebbe bisogno di un nuovo Movimento per la rifondazione comunista, a meno che non ci si accontenti di sopravvivere nella tenebra del quotidiano. Resta perciò necessario distinguere lo spirito di tale percorso dai limiti della sua realizzazione storica, che andrebbero egualmente conosciuti per evitare di ripeterli.
di Renato Caputo
Un bilancio storico? A partire dal Movimento per la Rifondazione comunista? Un tentativo che appare ormai abortito di rianimare il cadavere di un’ideologia totalitaria nell’epoca della fine della storia o, quantomeno, delle ideologie. Sauve qui peut?
Tuttavia è proprio la storia che ha permesso al genere umano di distinguersi, nell’evoluzione della natura, dalle altre specie animali. Come è l’ideologia a far sì che la plebe moderna non resti sempre all’opra china e possa, prendendo coscienza di sé come classe, alzare la testa e rivolgersi al padrone senza tenere più il cappello in mano.
Tanto più che il comunismo è stato dato per morto troppe volte nel corso della storia, a partire dal fallimento dei tentativi di realizzare l’utopia pitagorica e poi platonica in Magna Grecia. D’altra parte tale utopia è comunque risorta persino negli anni oscuri del medioevo cristiano, in quei pensatori e uomini di azione critici, che hanno mirato a trasformare in suo nome lo stato di cose presenti e sono stati bollati come eretici [1].
“Martiri” di questo ideale sono stati due dei più grandi personaggi di quell’età di transizione al mondo moderno, definita Rinascimento, quali Thomas More e Tommaso Campanella, e di quelle masse contadine, che avevano preso sul serio la libertà di interpretazione poi tradita da Lutero, nel momento in cui, tornando sui suoi passi, ha fondato a sua volta una chiesa, dopo averla bandita in nome di un rapporto diretto fra il singolo e l’assoluto.
Come è noto tale fantasma continuava a turbare i sonni delle classi dominanti anche nell’epoca della Restaurazione e perfino oggi, in un’epoca ancora più oscura, i direttori dei giornali dell’imprenditore politico che ha maggiormente segnato questo secondo ventennio, apertosi con il suicidio del Pci, continuano quasi quotidianamente ad agitarlo. Anzi, si direbbe che neanche le classi dominanti delle principali potenze mondiali, dagli Usa, all’Ue, dalla Russia alla Cina possano dormire sonni veramente tranquilli. La sua esorcizzazione e demonizzazione costantemente portata avanti dall’ideologia dominante fa credere che, ancora una volta, come l’araba fenice, il comunismo possa risorgere dalle sue ceneri.
Tuttavia, si dirà, pur con tutto l’ottimismo della volontà, non è possibile che tale rinascita sia il prodotto del partito nato dal Movimento per la Rifondazione del comunismo, a sua volta sorto sulle ceneri del Pci. Ciò non toglie, però, l’esigenza di lavorare, collettivamente, a un bilancio critico di questa esperienza, che è stata in un modo o nell’altro attraversata da centinaia di migliaia di persone in questo Paese, non certo le peggiori.
Tanto più che una rinascita di questo principio speranza per antonomasia è non solo proprio oggi possibile, ma quanto mai necessaria, anzi imprescindibile per chi non vuole che l’intera civiltà sprofondi con il capitalismo nella nuova barbarie, che la sua crescente crisi sta evocando e di cui l’Isis rischia di essere poco più che la punta di un iceberg.
Tanto più che, da un punto di vista storico, tale esigenza di un movimento per la rifondazione di un ideale, in grado di mobilitare masse di uomini, è stata viva e si è affermata proprio nelle epoche di maggiore crisi, in cui le sue manifestazioni storiche paiono quanto mai distanti dal loro concetto. Si pensi, per limitarci a un solo esempio, alla Riforma protestante.
In tutti questi casi, tuttavia, come sottolineava già Hegel, si corre sempre il rischio di confondere il necessario ritorno al concetto – indispensabile per rifondarne le manifestazioni storiche – con l’ingenua e irrealizzabile utopia di un ritorno alle origini, che cancelli il necessario sviluppo storico, finendo con lo gettare via con l’acqua sporca lo stesso bambino.
Proprio perciò non è certo nostra intenzione sostenere la necessità di ritornare sic et sempliciter al Movimento per la rifondazione comunista sorto nel 1991 dall’eutanasia del Pci, mettendo fra parentesi l’esperienza storica del Partito della Rifondazione Comunista. Sarebbe un atteggiamento altrettanto ingenuo di quelli di quei cristiani che intendevano tornare alle comunità cristiane originali, cancellando secoli di sviluppo del cristianesimo. In primo luogo perché, come insegna Hegel, prima ancora che Marx, la storia nella sua tragicità intrinseca si ripete unicamente nella forma di farsa, non fosse altro perché sbagliare è certamente umano, ma perseverare nell’errore è stupido, prima ancora che diabolico. In secondo luogo perché la stessa storia, se non vuole ridursi a mera cronaca, deve nascere necessariamente da un interesse presente, ovvero il nostro interesse per il Movimento per la rifondazione del comunismo del 1991, che a noi può interessare solo in funzione della nostra esigenza di rilanciare oggi il principio speranza, fendendo la tenebra del quotidiano che ci sta sempre più soffocando.
Si tratta, quindi, di ritornare, di riscoprire lo spirito di tale Movimento, per farlo rivivere nel nostro presente, per rimettere in moto il processo di trasformazione radicale dell’esistente. È, dunque, necessario abbandonare ciò che è morto di tale esperienza, ossia l’aspetto meramente storico, positivo, per liberarne ciò che è vivo, ciò che non muore mai, ovvero l’esigenza di rimettere in movimento un processo che rischia di perdere completamente il proprio fine a forza di accorgimenti tattici, necessari al proprio realizzarsi, alienandosi nell’altro da sé, ossia all’interno della società borghese.
A tale proposito bisognerebbe anzitutto liberare il Movimento per la rifondazione dal suo nefasto peccato originario, ossia l’influenza forse allora inevitabile, ma altrettanto oggi nefasta, della Perestrojka [2]. Troppo spesso si è confusa la sacrosanta esigenza di una liberazione catartica dalla tragedia dell’Unione Sovietica con la storicamente fallimentare esperienza gorbacioviana, tanto idealista quanto liquidatoria, che ha dato il colpo finale a un processo storico già ampiamente compromesso.
L’esigenza irrinunciabile di ripensare e riadattare l’esperienza storica del comunismo a fronte delle contraddizioni della propria epoca storica, l’altrettanto indispensabile disamina critica e autocritica delle proprie esperienze pregresse, dal momento che solo sbagliando si impara, non può essere confusa con il revisionismo. Con tale termine intendo quel processo inaugurato da Bernstein che ha ritenuto necessario sottoporre il proprio patrimonio storico e teorico a una critica condotta dal punto di vista della visione del mondo dominante, che è sempre la visione del mondo delle classi dominanti. Ciò ha portato a confondere la necessaria esigenza storica che i socialisti si alleino in determinati frangenti con i democratici, esigenza rivendicata già da Marx e praticata dallo stesso Lenin [3], con il catastrofico errore di rinunciare alla propria autonoma Weltanschauung, nel nome di un impossibile compresso con la visione del mondo del proprio antagonista di classe, che non può che portare a un mostruoso ibrido.
È invece indispensabile, per chi ritiene proprio oggi la prospettiva comunista non solo possibile ma imprescindibile, recuperare quello spirito unitario e autocritico del Movimento per la rifondazione – che intendeva risalire al concetto del comunismo, per superare dialetticamente gli errori del passato, che avevano prodotto la tragedia storica del 1989. Autocritica indispensabile non solo per rielaborare la prospettiva del comunismo alla luce delle attuali contraddizioni, ma per superare le esperienze organizzative fallimentari del recente passato, che hanno portato i comunisti nell’abisso della frammentazione e del settarismo.
Questo ovviamente non significa abbandonare lo spirito di scissione, giustamente considerato indispensabile dallo stesso Gramsci, anche perché, come osservava già Hegel, una formazione storica nel momento in cui smette di scindersi perde la propria vitalità. La natura stessa, infatti, si evolve, come sottolineava a ragione Bergson, sempre scindendosi. Scissione necessaria per separare i comunisti dai riformisti di destra e gli opportunisti di sinistra, ma decisamente suicida quando porta i comunisti, necessariamente pochi in quanto avanguardia della classe, a dividersi in sette tutte altrettanto inefficaci e, quindi, dannose.
Lo spirito unitario, come nel Movimento per la rifondazione, non può però significare la cancellazione delle differenze. In tal modo si produrrebbe una cattiva totalità, quella del centralismo organico e burocratico, volgarmente definito stalinista, che impedisce al partito di valorizzare le differenze e impedisce qualsiasi forma di democrazia. Anche in questo caso appare diabolico o farsesco ripetere gli errori o le tragedie del passato. Questo ovviamente non significa condannarsi a ripetere l’errore opposto, che ha troppo a lungo impedito al partito della Rifondazione comunista di funzionare, ossia buttare con l’acqua sporca del centralismo burocratico, il bambino, ossia il centralismo democratico, indispensabile per distinguere un partito da un inter-gruppi, ossia da una confederazione di sette. In questo modo, infatti, con il centralismo muore anche la democrazia, perché la setta, o l’alleanza fra sette dominanti pretende di imporre la propria direzione sulla base della logica liberale del maggioritario, rinunciando all’indispensabile sintesi fra le diverse posizioni liberamente emerse nel dibattito interno, che rende legittima la direzione, in quanto si fonda sull’egemonia e non sul mero rapporto di forza.
Note
[1] Con la significativa eccezione di Gioacchino da Fiore sfuggito miracolosamente a tale accusa.
[2] Per altro lo stesso termine “rifondazione” potrebbe essere inteso come una traduzione letterale del russo perestrojka.
[3] A lungo tra i massimi dirigenti di un Partito che si definiva, già nel nome, socialdemocratico.