L’adesione delle élite europee e italiane alla difesa dell’Ucraina, dopo l’attacco russo del 22 febbraio 2022, ha seguito le linee guida stabilite dall’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Tuttavia, non può essere interpretata soltanto come un atto di obbedienza politica verso Washington, bensì come una risposta diretta a una minaccia che mette in discussione l’intero ordine internazionale. Questo sistema, che ha garantito la loro posizione di potere, si fonda su un’Unione Europea burocratica e poco democratica, dove l’asservimento delle masse al progetto tecnocratico ha permesso alle élite di dominare a lungo i Paesi europei.
L’aggressione russa all’Ucraina rappresenta, per queste élite, una sfida esistenziale, non solo geopolitica, ma soprattutto culturale ed etica. Dietro una patina di democrazia, il modello europeo viene percepito come sempre più autoritario. La posta in gioco non è solo il mantenimento del legame transatlantico o il rispetto delle alleanze con Washington; è la difesa di un ordine che, da decenni, consente loro di controllare le dinamiche economiche, politiche e sociali dei Paesi di riferimento.
Il sistema neoliberista europeo, basato su una stabilità globale che paralizza il cambiamento politico, ha diviso la società tra una minoranza detentrice dei mezzi di produzione e una maggioranza asservita al potere tecnocratico. Quest’ultima, in modo paradossale e pericoloso, ha finito per interiorizzare gli ideali delle élite, pur essendo questi contrari ai suoi interessi. La Russia, con la sua aggressione, rischia di minare un ordine che ha garantito prosperità alle élite attraverso il libero mercato e la stabilità geopolitica occidentale.
La difesa dell’Ucraina diventa così l’ultima barriera per evitare il collasso di questo sistema. Una vittoria russa con concessioni territoriali o politiche segnerebbe una rottura radicale, destabilizzando la struttura di potere in Europa. Le élite temono che le masse, oggi acquiescenti, possano ribellarsi contro governi percepiti come illegittimi. Il ritorno alla pace, infatti, potrebbe indebolire l’ordine che integra l’Europa nel blocco occidentale, con gli Stati Uniti come garante armato. La NATO, al di là delle apparenze, rimane uno strumento a controllo statunitense, i cui obiettivi riflettono le priorità di Washington.
In Europa, a differenza degli Stati Uniti (dove la retorica dell’“America First” di Trump ha temporaneamente placato il dissenso), la repressione del malcontento rischia di alimentare derive neofasciste. Una pace che sancisca la vittoria russa esporrebbe il continente a contraccolpi destabilizzanti, minando il ruolo delle élite come mediatori globali.
Il sostegno all’Ucraina non è dunque solo una questione di sovranità nazionale, ma di salvaguardia del sistema che permette alle élite di dominare. Una pace prematura potrebbe ridisegnare l’architettura di sicurezza europea, avvicinando alcuni Paesi a Mosca e allontanandoli dagli alleati tradizionali. Per questo, le élite spingono per prolungare il conflitto: la fine delle ostilità rischierebbe di dissolvere le alleanze su cui fondano il loro potere.
In definitiva, l’impegno bellico non nasce da mera fedeltà agli USA o da ideali democratici, ma dalla difesa di una struttura di potere iniqua. Le masse hanno introiettato i valori delle élite, anche quando oppressivi, garantendone la sopravvivenza politica. Una pace improvvisa aprirebbe scenari di rivoluzione: un eventuale accordo tra Putin e Trump potrebbe innescare un ricambio totale delle classi dirigenti europee, travolgendo anche le opposizioni parlamentari ed extraparlamentari.
La paura di una pace “sbagliata” riflette il terrore di un crollo delle gerarchie attuali e della centralità europea nel sistema occidentale. Per le élite, la guerra in Ucraina è una battaglia per la sopravvivenza personale e politica, oltre che per preservare un ordine che permette a pochi di dominare le molteplici realtà del continente.