Nel primo articolo ho provato a tratteggiare il paradigma teorico sottostante il “sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita sino a sei anni” evidenziando come l’accento che la classe dominante pone sulla cura dell’ambiente familiare e scolastico in cui i nascituri si troveranno immersi è determinato dalla necessità di sviluppare il “capitale umano”, vale a dire le capacità, le conoscenze e le abilità funzionali al miglior impiego e alla crescita economica. Di contribuire a formare cittadini pensanti, critici, liberi, eguali e consapevoli, non se ne parla. Concludevo l’articolo citando uno degli economisti e premio Nobel che più si è battuto in questo senso, James Joseph Heckman, per il quale “tutti i programmi proposti devono rispettare il primato della famiglia, le proposte politiche devono essere culturalmente sensibili e riconoscere la diversità dei valori nella società e le strategie efficaci sono quelle che coinvolgono il settore privato per mobilitare risorse e produrre un menu di programmi tra cui i genitori possono scegliere”. Principi che si ritrovano analizzando gli obiettivi (art. 1) e l’organizzazione (art. 2) del sistema integrato di educazione ed istruzione approvato dal governo italiano.
Per come è stato istituito, il sistema si propone quale strumento di carattere sia assistenziale che pedagogico, i cui beneficiari diretti sono le famiglie e i bambini. Alle prime, la norma si rivolge in un duplice senso: come nuclei educativi (si parla di sostegno alla primaria funzione educativa della famiglia, favorendone il coinvolgimento nell’ambito della comunità educativa e scolastica) e come oggetto di assistenza (favorire la conciliazione tra i tempi e le tipologie di lavoro dei genitori e la cura delle bambine e dei bambini). In nessun passaggio si trovano le famiglie quali destinatarie di appositi programmi che preparino i suoi componenti ad accudire, educare ed istruire la prole. Al contrario, ai bambini si guarda unicamente quali destinatari di cure e per svilupparne le “potenzialità di relazione, autonomia, creatività, apprendimento”, senza indirizzarli in alcun modo e dunque tralasciando il loro essere al contempo mezzi attraverso cui la società vive.
Questa dimenticanza, tuttavia, non è casuale in quanto permette ai padroni di colmare il vuoto e di stabilire quali sono le potenzialità di relazione, autonomia, ecc, effettivamente da realizzare e quali da reprimere o nascondere. Non più direttamente, come una volta, quando l’istruzione era per lo più gestita direttamente dai privati, ma utilizzando gli immancabili “orientamenti educativi nazionali” stabiliti sulla base delle linee guida proposte dall’ altrettanto immancabile Commissione (con la C maiuscola) designata dal Ministero, dalle Regioni e dagli Enti locali e formata dai soliti “esperti in materia di educazione e d’istruzione”, nonché attraverso i famigerati “criteri di monitoraggio e di valutazione dell'offerta educativa e didattica definiti in coerenza con il sistema nazionale di valutazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80” (Invalsi, per gli amici). L’oggetto della legge, quindi, è soltanto relativo a come sviluppare le potenzialità più utili al padronato.
Le modalità individuate sono fondamentalmente due. La prima è la subordinazione dell’integrazione dei due cicli (zero-tre e tre-sei anni) all’inclusione di chi attualmente è escluso dalla possibilità di frequentare gli asili o è costretto a lunghi spostamenti per raggiungere la materna. Con questo decreto legislativo, infatti, il problema del brusco passaggio dal nido alla scuola dell’infanzia - che esiste ed è il motivo per chiedere una maggiore (ma diversa) integrazione tra servizi socio-educativi e scuola - è destinato a rimanere insoluto o al più, come sottolineato già nell’articolo di Beatrice Corsetti, ad essere risolto svalutando quanto di buono i due diversi segmenti che si vogliono integrare riescono attualmente a produrre, dal momento che questa esigenza si trova a convivere con la molto più grande e sentita esigenza di garantire il servizio ad una crescente fetta di popolazione (ad almeno il 33 per cento dei bambini sotto i tre anni e al 90 per cento di quelli sotto i sei, secondo quanto stabilito in sede Ue). Ciò finirà per monopolizzare gran parte dello sforzo organizzativo e finanziario, lasciando alla pedagogia realmente praticata da educatrici ed insegnanti per integrare i servizi socio-educativi con quelli scolastici, solo le briciole in termini di attenzione, tempo e risorse.
Un conto, infatti, è fare in modo che il percorso dai tre mesi ai sei anni sia il meno traumatico possibile, maggiormente coordinato, ecc - e questo va fatto quotidianamente nel rapporto coi bambini e tra educatrici ed insegnanti - un conto è prevedere, tra gli obiettivi strategici del sistema integrato (art. 4): (a) il progressivo consolidamento, ampliamento nonché l’accessibilità dei servizi educativi per l’infanzia (con l’obiettivo del 33 per cento); (b) la graduale diffusione dei servizi educativi per l’infanzia (con l’obiettivo di giungere al 75 per cento nei comuni); (c) la generalizzazione progressiva, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, della scuola dell’infanzia.
Obiettivi condivisibilissimi ma che devono essere affrontati con strumenti diversi rispetto a quelli necessari per l’integrazione e che poco o nulla hanno a che fare con la pedagogia se non per il fatto che il loro raggiungimento rappresenta una precondizione necessaria affinché la società (e non solo la famiglia) si possa prendere in carico la cura, l’educazione e l’istruzione delle giovani generazioni.
Questa commistione tra integrazione ed inclusione, però, non è casuale né era parte del disegno originale (la legge di iniziativa popolare promossa da Anna Maria Serafini, già deputata del PCI-PDS-DS e poi senatrice PD) che voleva introdurre già nel 2004 l’integrazione zero-sei per fornire a tutte le bambine e i bambini “il diritto ad avere pari opportunità di educazione e d’istruzione, di cura, di relazione e gioco”. Questa commistione viene introdotta successivamente, nel 2014 col Ddl a firma di Francesca Puglisi (anche lei senatrice del PD) che tuttavia aveva il merito di lasciare intatta la dimensione formale del “diritto” (che è pur sempre esigibile in un qualunque tribunale borghese), di stanziare 1,5 miliardi di euro a decorrere dal 2019 e di far fuoriuscire le spese sostenute per l’integrazione e l’inclusione dai vincoli del patto di stabilità. Oggi, invece, il decreto legislativo non cita mai la parola “diritto”, decurta il finanziamento dell’84 per cento (portandolo a soli 239 milioni annui) e mantiene tutti i vincoli relativi al pareggio di bilancio (sebbene il testo approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri il 14 gennaio li aveva cancellati).
Pertanto, sebbene in astratto sarebbe meglio promuovere l’utilizzo del servizio in un’ottica integrata piuttosto che parcellizzata, il modo in cui si fa e le risorse a disposizione ci obbligano a criticare la scelta di mischiare le due questioni. L’accesso al servizio, infatti, è una questione incomparabilmente più grande e complessa in termini infrastrutturali, organizzativi e di spesa e per tanto la sua soluzione finisce per determinare il tipo di soluzione che viene adottata per l’integrazione dei cicli.
La determinazione del vincolo di bilancio, poi, non fa che aggravare questa differenza col risultato che le poche risorse pubbliche disponibili verranno impiegate quasi esclusivamente per l’obiettivo dell’inclusione (art. 3 e 12) il cui aspetto pedagogico, se fosse preso in considerazione, è diretto ai genitori (in quanto attinente alla lotta contro i pregiudizi che ancora circolano riguardo la frequenza nei nidi) e di tutt’altra natura rispetto alla sfida pedagogica attivata dall’integrazione dei servizi socio-educativi e scolastici, e che così è destinata ad essere a dir poco trascurata.
Non a caso, l’integrazione proposta è innanzitutto un’integrazione di tipo infrastrutturale che risponde all’esigenza di ammassare quanti più bambini possibili in uno stesso luogo per fare economia. Siccome le risorse sono scarse rispetto al bisogno di tali servizi e tali bisogni enormemente più grandi e sentiti rispetto a quello del loro coordinamento, si procede (art. 3), come già previsto nel Ddl Puglisi, alla costruzione di “poli per l’infanzia” in grado di accogliere “in un unico plesso o in edifici vicini, più strutture di educazione e di istruzione per bambine e bambini fino a sei anni di età” e che “possono essere costituiti anche presso direzioni didattiche o istituti comprensivi”.
La seconda modalità per sviluppare al meglio le potenzialità più utili al padronato è il progressivo affidamento di una crescente quota della soddisfazione dei bisogni di cura, educazione ed istruzione ai soggetti privati. Ma di questo tratterò nel prossimo articolo.