Se non si entra nell’ottica di agire da comunisti, tutte le altre questioni, al centro del dibattito in quel che resta della sinistra radicale di questo paese, rischiano di rimanere disquisizioni astratte. Considerato che il noto in genere, appunto perché ritenuto tale, non è in realtà conosciuto, cercheremo di delineare in modo sintetico cosa significhi nei fatti operare da comunisti.
di Renato Caputo
È comunista chi sostiene di esserlo o chi dimostra nei fatti di agire come tale? Cosa significa nel concetto divenirlo? Senza aver risolto questa questione l’attuale dibattito fra costituente comunista e frazione comunista all’interno di una più ampia formazione socialdemocratica, la querelle fra fronte antimperialista, anticapitalista o antiliberista rischiano di essere disquisizioni astratte.
Come è noto Hegel considerava propedeutica a ogni ragionamento filosofico la critica a chi pensa astrattamente [1]. A suo avviso, in effetti, ognuno è il prodotto delle proprie azioni e non delle proprie aspirazioni o presunzioni. Come un grande artista non può che esserlo chi lo dimostra attraverso le opere d’arte che produce e non chi sogna di esserlo, così anche un comunista è colui che agisce come tale. Sono, dunque, le sue opere, più che le sue parole che testimonieranno se c’è consequenzialità fra il dire e il fare.
Tale distinzione appare oggi particolarmente decisiva dopo che da troppo tempo in nome del comunismo, gente che si è autoproclamata tale, ha gettato un discredito tale sull’unica realistica alternativa al modo di produzione capitalistico, al punto che attualmente ai più l’unica alternativa reale appare la barbarie del fondamentalismo religioso [2].
Ciò fa sì che molti aspiranti comunisti nascondano la propria identità, preferiscano definirsi in un modo diverso e nutrano forti sospetti nei confronti di chi aspira all’unificazione dei comunisti. Ora tali espedienti nominalistici non risolvono la questione di fondo, sostanziale, e rischiano in tal modo di generare ulteriore confusione visto che, secondo l’impostazione storica che il marxismo eredita dalla filosofia hegeliana, ogni cosa si comprende unicamente sulla base della propria storia.
A questo proposito muoviamo dalla celeberrima definizione fornita dal Manifesto del partito comunista mediante cui Marx ed Engels hanno indagato il rapporto fra i comunisti e la propria classe di riferimento: “i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario. Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato” [3]. Dunque comunisti sono coloro che riescono a porsi alla testa del conflitto di classe, in quanto hanno le posizioni più avanzate e più radicali, in grado di risolvere le problematiche andando alla loro radice.
I comunisti, quindi, si distinguono dai semplici proletari e dai membri degli altri partiti, che sostengono difenderne gli interessi, dal punto di vista teorico e pratico. In primo luogo, in effetti, come sostiene Lenin “senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”, in quanto “solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente di avanguardia” [4].
Da questo punto di vista centrale è la funzione degli intellettuali e non a caso proprio questa questione è al centro della riflessione nei gramsciani Quaderni del carcere. Dirimente è, in particolare, la questione della formazione di intellettuali organici alla classe. Si tratta di un compito storico imprescindibile, che richiede tempo e, soprattutto in una prima fase, la collaborazione di intellettuali tradizionali conquistati alla causa dell’emancipazione dei subalterni.
Come osservavano Marx ed Engels già nel Manifesto “in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione all'interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe rivoluzionaria (…). Quindi, come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme” [5].
Compito di questi ultimi sarà, dunque, in primo luogo mettersi al servizio degli intellettuali organici in formazione, gli unici che acquisite le competenze necessarie potranno dirigere la classe al successo, in quanto nei momenti topici del conflitto non cercheranno rifugio nella classe di provenienza, come troppe volte hanno fatto nel corso della storia gli intellettuali tradizionali alla guida dei partiti proletari.
Da questo punto di vista decisivo è il processo di formazione della classe, per farla passare da passiva classe in sé, facile preda della potenza egemonica del pensiero unico dominante, a classe per sé, autocosciente dei propri interessi e obiettivi. Come ricorda Lenin: “Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una ‘terza’ ideologia, e, d’altronde, una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi)” [6].
Diventa, quindi, essenziale impegnarsi prioritariamente nella formazione dei quadri e nella lotta di classe a livello ideologico, per strappare l’egemonia sulle masse e sulle classi intermedie al gruppo sociale dominante. Sono allora altrettanto necessari corsi di formazione teorica e lo sviluppo della stampa comunista, fondamento stesso della formazione del partito comunista. Si tratta di un lavoro che va portato avanti con il massimo del rigore, consapevoli appunto che non essendoci una possibile via di mezzo nella lotta ideologica fra capitale e forza lavoro, avendo tali classi interessi e obiettivi necessariamente contrapposti, “ogni menomazione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese” [7].
Da parte loro Marx ed Engels sostenevano: “Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi” [8]. Tanto più che, secondo Marx e Gramsci, il marxismo è essenzialmente una teoria della prassi; considerato che “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo” [9], l’ideologia socialista dovrà mirare a realizzarsi, mettendosi al contempo alla prova, nella lotta di classe. Al centro di essa vi è il conflitto fra capitale e forza lavoro e, dunque, i comunisti – a partire dai loro luoghi di lavoro, o di formazione – devono porsi come avanguardia riconosciuta e più radicale dei movimenti reali dei subalterni. Postisi alla guida dei movimenti di lotta più immediati, quelli sociali, come la lotta per il salario nelle sue diverse forme, per limitare l’orario e i ritmi di lavoro, per conquistare spazi di democrazia nei luoghi di lavoro devono mirare a unificare le diverse vertenze, portandole a svilupparsi a livello superiore, il livello politico della lotta per il potere. Caratteristica peculiare dei comunisti rispetto agli altri attivisti sociali è “che sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia” [10].
A tale scopo è in primo luogo imprescindibile l’impegno alla ricostruzione dell’Internazionale, infatti come sostenevano Marx ed Engels: “I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari” [11]. Ciò ovviamente non significa occuparsi in astratto di questioni internazionali, ammirare e dare solidarietà alle lotte degli altri popoli, o svolgere per essi il ruolo di “portatori d’acqua”, ma sviluppare in primo luogo il conflitto nel proprio paese. Il comunismo quale “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” [12], deve necessariamente sviluppare in un primo tempo “la lotta del proletariato contro la borghesia” come “lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. È naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia” [13]. Da questo punto di vista non c’è niente di più lontano dal comunismo del socialismo nazionale, o nazional-socialismo che ricerca l’alleanza con la propria borghesia su base nazionale o continentale considerando prioritario battersi con gli altri imperialismi ad essa concorrenti. Non per niente Lenin denuncia, ne L’imperialismo fase suprema [o superiore] del capitalismo, come i peggiori imperialisti coloro che considerano prioritaria la lotta contro i paesi imperialisti che si contrappongono al proprio. Non a caso la Seconda internazionale andrà in rovina proprio sulla base di questo imperdonabile errore, lasciando campo libero alla prima guerra mondiale imperialistica.
Tale lotta nazionale, se non vuole essere una lotta apparente, svolgendosi nel solo piano fenomenico della rappresentanza politica istituzionale, mediante la costruzione di un quanto mai inconsistente consenso di opinione, deve fondarsi su di un partito capace di guidare con i propri militanti le diverse lotte parziali, facendole progressivamente convergere verso obiettivi più elevati e, quindi, capaci di costruire momenti reali di unità dal basso dei subalterni. Rinunciare alla forma partito – ovviamente nel senso del partito come elaborato dal marxismo, in particolare da Lenin e Gramsci – significa ridursi o a un’opzione politicista – che può anche condurre al governo, ma solo per fare il lavoro sporco per la borghesia e perdere credibilità dinanzi alla classe – o limitarsi alla prospettiva minimalista dei movimentisti, che si preoccupano di una singola questione sociale, senza tenere conto che anch’essa può trovare una reale soluzione solo insieme alle altre.
Il piano politico è prioritario dal punto di vista razionale, ma non dal punto di vista reale. Da quest’ultimo punto di vista, come momento di sintesi politica, il partito ha senso solo come catalizzatore di lotte sociali, in primo luogo quelle sui posti di lavoro, in secondo luogo nei luoghi di formazione della forza lavoro e nei quartieri proletari a difesa del salario indiretto e delle condizioni di vita. Ciò non sarà possibile se i comunisti si presenteranno dai movimenti sociali in lotta con la pretesa di rappresentarne gli interessi nelle istituzioni; per quanto privi di coscienza di classe coloro che lottano in un singolo movimento sociale intuiscono, infatti, che in quelle istituzioni borghesi i comunisti non hanno reale voce in capitolo e, quindi, preferiscono di solito rivolgersi, nella logica del do ut des, ai rappresentanti della sinistra borghese. Né si può pensare di ovviare a questa difficoltà con un “partito sociale” che sostenga dall’esterno le lotte. Portare un pasto caldo a chi occupa, ad esempio, è certamente utile, ma non risolutivo. In tal modo ci si potrà al massimo conquistare una certa riconoscenza da parte di chi lotta, ma non si sarà in grado di guidarlo verso obiettivi più ampi e radicali.
Resta, quindi, indispensabile per essere comunisti essere parte integrante delle lotte sociali, non ponendosi alla coda dei movimenti alla ricerca del consenso d’opinione, ma lottando per conquistare l’egemonia. Ovviamente ciò può essere possibile solo operando per cellule nei luoghi di lavoro, di studio e nei territori proletari. Altrimenti si potrà svolgere al massimo il ruolo infausto del grillo parlante.
A questo scopo è indispensabile che tutti i militanti siano tendenzialmente quadri formati, che siano parte di un intellettuale collettivo, il partito, che siano attivi in forma organizzata nei movimenti sociali, facendo di tutto per esserne avanguardie riconosciute. È, dunque, prioritario, per un partito che ambisce a essere comunista, dotarsi di una linea sindacale, per cui tutti i suoi militanti nel mondo del lavoro siano attivi in modo organizzato, in primo luogo nei sindacati maggiormente rappresentativi, ossia dove si trova la maggioranza della classe di riferimento. Infatti i rapporti di forza potranno mutare solo conquistando l’egemonia sulla maggioranza dei lavoratori e non limitandosi a unificare, isolandoli dalla masse, i pochi lavoratori già in parte coscienti.
Nei sindacati però i comunisti non potranno certo operare in una logica da sindacalista, ossia mirando a vendere al miglior prezzo possibile la forza-lavoro. Si tratta, infatti, non di migliorare le condizioni dello sfruttamento e dell’alienazione proprie di ogni forma di lavoro salariato, ma di farla finita con il modo di produzione che su esso si basa e che riduce tutto, a partire dalla forza-lavoro, a merce.
A questo scopo i comunisti oltre che nei sindacati e nel partito, sempre su posizioni radicali ispirate al marxismo, dovranno attivarsi o attivare strutture consiliari in grado di unificare tutti i lavoratori, a partire dai più combattivi, in modo del tutto indipendente dai sindacati e dalle organizzazioni di appartenenza. Tali strutture, dove si sperimenta la democrazia diretta consiliare, sono decisive perché costituiscono le cellule della società futura, di una società socialista in cui non sarà più il lavoro morto, accumulato, il capitale a dominare sul lavoro vivo.
Note
[1] Cfr. G.W.F. Hegel, Chi pensa astrattamente, a cura di Francesco Valagussa, Edizioni ETS, Pisa 2014.
[2] In realtà non si tratta di un’alternativa ma della tragica conseguenza dell’incapacità di dare una soluzione in senso progressivo alla crisi strutturale del modo di produzione capitalistico.
[3] K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 25.
[4] V. Lenin, Che fare?, Einaudi, Torino 1971, pp. 27-28. A tale proposito Lenin ricordava il monito di Engels: “tenere sempre presente che il socialismo, da quando è diventato una scienza, va trattato come una scienza, cioè va studiato” [F. Engels, “Prefazione” (1.07.1874) alla terza edizione de “La guerra dei contadini in Germania” (1850), in vol X, 1992, p. 674] e diffuso capillarmente fra le masse per poter edificare un Partito e un sindacato autonomi dall’ideologia borghese.
[5] K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 19.
[6 ] V. Lenin, Che fare?, Einaudi, Torino 1971, pp. 48.
[7] Ibidem.
[8] K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 26.
[9] K. Marx, XI Tesi su Feurbach, in F. Engels, Ludwig Feurbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 90.
[10] K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 25.
[11] Ibidem.
[12] K. Marx e F. Engels, L'Ideologia tedesca (1846) Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 25.
[13] K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21