Non è passato molto tempo dall'ennesimo attacco contro la nostra Costituzione - fortunatamente sventato il 4 dicembre 2016, grazie ad un risveglio di coscienza democratica - ritenuta “troppo” democratica dalla finanza e dal capitale internazionali, che siamo chiamati di nuovo a difendere la nostra democrazia costituzionale da un attacco ancora più pericoloso.
Stavolta, però, l’attacco è portato contro la prima parte della Costituzione, contro i suoi principi e contro i suoi stessi valori fondanti; è cioè un attacco contro l'unità dello Stato, la coesione del Paese, la solidarietà e l'uguaglianza dei diritti fondamentali dei cittadini.
Com’è evidente, il progetto denominato “autonomia differenziata” e successivamente coniugato con una serie di aggettivi lenitivi, come: “cooperativa, soft, solidale” ecc, non risponde solo al sogno separatista della Lega, ma è stato fatto proprio anche dal PD e dalle altre forze politiche, non curanti di determinare condizioni diverse in diverse situazioni, su materie fondamentali per la coesione stessa del Paese.
Del resto la stura a questo progetto è stata data, nel tempo, da una serie di dissennate modifiche costituzionali volute proprio da governi di centro sinistra, a partire dalla modifica del titolo V° della Costituzione, per finire all'attuale interpretazione dell'art. 116, 3^ co. e agli accordi tra il Governo Gentiloni e le tre Regioni, siglato a pochi giorni dalle elezioni nel 2018, (ripreso dal Governo Salvini) e portato oggi avanti dal Ministro Boccia.
Spetta dunque di nuovo alle autentiche forze democratiche, Associazioni, Movimenti, Giuristi, Coordinamenti, forze politiche e sindacali ed esperienze sociali difendere ancora una volta l'assetto costituzionale dello Stato, uno e indivisibile, ed il ruolo stesso di un Parlamento già da tempo svuotato delle sue prerogative, al quale sembrerebbe di nuovo riconosciuto il diritto, fino ad oggi negato, di entrare nel merito di una questione così determinante per la stessa vita del Paese, .
Se passasse questo provvedimento, infatti, si creerebbero Servizi pubblici differenti per zone e per reddito, si raddoppierebbe la burocrazia, si sottrarrebbe l'economia locale, sia privata che pubblica, alla funzione regolatrice e programmatoria nazionale, per affidare ai singoli territori materie essenziali allo sviluppo equilibrato del Paese come la scuola, la salute, l'ambiente, i trasporti, le infrastrutture, la ricerca scientifica e tecnologica, i contratti di lavoro (altro che gabbie salariali!) e, perfino, i rapporti con la Ue. Anche una sola di queste materie, sottratta alla funzione perequativa dello Stato, innescherebbe un processo irreversibile.
Basti pensare che le tre Regioni “apripista” (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) producono da sole oltre il 40% del PIL nazionale e chiedono di gestire direttamente il c.d. residuo fiscale (la differenza, cioè, tra le entrate fiscali/tributarie e le risorse che vengono spese), ammontante a circa 30 miliardi. Una vera secessione dei ricchi, come giustamente è stata definita!
Cosa c'è dietro tale pervicace disegno di rottura dell'unità del Paese? Perché si vuole rompere il principio costituzionale che impone la perequazione delle risorse tra i territori e la pari dignità dei diritti dei cittadini, a prescindere da dove risiedono?
Il vero obiettivo, che va denunciato con chiarezza per svegliare le coscienze dei veri democratici e allargare il fronte del consenso intorno a questa difficile battaglia, è quello di ottenere una maggiore indipendenza da un sistema economico, politico e sociale, le cui regole fondamentali sono di ostacolo ad una profonda integrazione con il sistema produttivo economico e sociale nord europeo. Un sistema, che, viceversa, non contempla forme di equità e di redistribuzione di risorse; non contempla il carattere nazionale e unitario dell'istruzione; non contempla alcun limite all'ampliamento delle privatizzazioni dei beni e dei servizi.
È il progetto che parte da Maastricht, quello dell'integrazione europea delle Regioni “forti” del centro nord; è la vittoria del liberismo. È su questo punto che bisogna riflettere e far capire la portata dell'attacco: la volontà di introdurre surrettiziamente una profonda modifica degli assetti istituzionali del nostro Paese, della funzione regolatrice e solidale dello Stato e dell'unità d'indirizzo in materie fondamentali, che debbono restare di sua competenza, pena la perdita definitiva dell'uniformità di sviluppo dell'intero territorio nazionale.
Appare, pertanto, evidente il filo nero che unisce questo progetto a tutti gli attacchi portati, nel tempo, alla Carta del '48: il disegno, cioè, di progressivo smantellamento della Costituzione, tramite decine di ferite che le vengono inferte da decenni e da decine di Governi di centro destra e, ancor più, di centrosinistra.
Dall'art. 11, alla modifica del titolo V°; dalle leggi maggioritarie, al tentativo di modificare 1/3 della Costituzione, cambiandone ben 47 articoli; dalla incompatibilità delle normative Ue con la Costituzione, all'art. 81, ed ora questa deviante interpretazione dell'art. 116, che costituisce l'ennesima “carica” che, insieme alle altre, se viene fatta brillare, può abbattere definitivamente l'edificio della nostra democrazia parlamentare, degli assetti istituzionali e della coesione stessa dello Stato, così faticosamente costruita.
È un quadro in cui s'inseriscono perfettamente le proposte, sostenute e attuate, anche da questo Governo, del taglio dei parlamentari, del Referendum propositivo, del vincolo di mandato e di una riforma della Giustizia, i cui connotati (dalla prescrizione, alle intercettazioni ed alla separazione delle carriere) non sono ancora chiari, ma si possono intuire, stante la permanenza a quel Dicastero dello stesso Ministro della Giustizia di prima. Alla faccia della discontinuità!
Ed a proposito di discontinuità, chi ha creduto che questo Governo la praticasse davvero, ha di recente avuto una prova inconfutabile dell'impossibilità per lo scorpione (l'establishment) di cambiare natura, con la legge quadro proposta in materia dal Ministro Boccia, che aveva preannunciato una legge “equa e solidale” per tutte le Regioni.
Si tratta di due articoli: il primo riporta i principi per l'attribuzione alle Regioni di forme e condizioni particolari di autonomia ex art. 116, comma 3; il secondo è sulle modalità di definizione dei Lep (livelli essenziali di prestazione) e degli obiettivi di servizio.
Una proposta debole poiché, ha dei punti di caduta di evidente impraticabilità o di autentica discriminazione:
- la legge quadro non può costituire intesa vincolante per tutte le Regioni, che assicuri uguaglianza e solidarietà, stante il portato dell'art. 116, che garantisce a ciascuna Regione la sua intesa, con relativa legge di approvazione che è legge “rinforzata” (preminente, cioè, sulla legge quadro).
- prevede esplicitamente che i Lep siano definiti dopo la legge che approva la maggiore autonomia, precisando che se essi non vengono definiti entro i dodici mesi successivi all'approvazione della legge quadro, si procede sulla base della spesa storica… cosa che ha sempre danneggiato le Regioni del Sud e favorito quelle del Nord.
Pertanto, senza addentrarsi in lunghe e complesse spiegazioni giuridiche su questa inadeguata proposta di legge quadro, che non muta la sostanza della sintesi precedente, si può tranquillamente affermare, da un punto di vista politico, che la questione delle autonomie va affrontata in tutt'altro modo.
Occorre ripartire da un'attenta analisi delle risorse e delle funzioni delle Regioni, chiedendo la revisione del titolo V°, una legge di attuazione che interpreti l'art. 116 e perseguendo obiettivi politici chiari, equi e condivisi, se si vuole evitare che si ritorni all'Italia dei singoli staterelli (come avverte il costituzionalista Villone) e se si vuole preservare l'unità della Repubblica, recuperando una volta per tutte il divario tra Nord e Sud, come prevede esplicitamente la Costituzione del '48.