La convinzione che la società neoliberista, proprio per la sua enfasi sull’individuo, per la deregolamentazione spinta in tutti i settori della vita sociale, per la sua politica internazionale tesa alla destabilizzazione e al cosiddetto caos creativo, finisce con lo sfociare nel più bieco autoritarismo, trova ogni giorno conferma. Infatti, di controllo, di disciplinamento, di verità assolute stabilite da autorità quasi sacre o presentate tali non può fare a meno per mantenere in piedi il suo ordine sempre più contraddittorio e pericolante, per arginare l’anarchia da essa stessa generata. Mi limiterò a menzionare alcuni eventi verificatisi in questi ultimi giorni in alcuni paesi che fanno parte dell’autoproclamata civiltà occidentale, culla di tutte le libertà, ma soprattutto della libertà attribuita ad alcuni di essere proprietari di tutto.
Cominciamo con il quotidianamente massacrato popolo palestinese, il quale ora non potrà nemmeno più protestare portando in piazza la sua bandiera, divenuta simbolo di libertà e autodeterminazione per molti nelle più disparate parti del mondo. Come è stato riportato da vari mezzi di informazione, nei giorni passati, il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Yariv Levin, ha emesso una direttiva secondo la quale la bandiera palestinese sarebbe un simbolo terroristico e, pertanto, la polizia è autorizzata a eliminarla dagli spazi pubblici. Questa misura è persino denunciata da Amnesty International, che la definisce un vergognoso attacco contro il diritto all’identità nazionale, alla libertà di espressione e a riunirsi pacificamente.
Secondo le autorità israeliane questo nuovo ordine limitativo dei diritti fondamentali ha l’obiettivo di impedire l’incitazione delle masse contro il paese occupante, che detiene per volontà divina le terre palestinesi. Tuttavia, è da notare che esso è stato formulato nella congerie di altre misure destinate a contenere la dissidenza e le proteste, comprese ovviamente quelle volte a difendere le rivendicazioni dei palestinesi. Infatti, tra di esse si distinguono indicazioni per reprimere con sempre maggiore forza la società civile palestinese, lo straordinario aumento di incarceramenti e di detenzioni amministrative per colpire i militanti dell’autodeterminazione. Obiettivo che forse potrà essere raggiunto solo una volta che il dominio degli Usa e della sua implacabile propaggine mediorientale sarà ridimensionato, ma certo non in tempi brevi.
In realtà, è da tempo che le autorità israeliane stanno contrastando l’esposizione della bandiera palestinese; per esempio, nel maggio 2022 hanno fatto togliere di mezzo le bandiere con cui i palestinesi seguivano a Gerusalemme est il corteo funebre della giornalista Shirin Abu Akleh, assassinata dall’esercito sionista.
La direttrice di AI per il Medio Oriente e il Nord Africa, Heba Morayef, ha condannato questo sfrontato tentativo di cancellare l’identità palestinese con lo scopo di legittimare il razzismo verso una popolazione che vive in condizioni disumane, fondate su un vero e proprio regime di apartheid. Si tenga conto, per esempio, che solo il 10% dei palestinesi riceve il permesso di andarsi a curare fuori dei territori occupati e che il tasso di cancro è elevatissimo tra gli abitanti della striscia di Gaza, perché gli israeliani hanno ivi sotterrato le scorie nucleari che stanno inquinando le falde acquifere.
Questi eventi si sono realizzati sotto un governo, che è sicuramente uno tra i più reazionari del paese, anche per gli stessi israeliani, i quali in quasi 100.000 hanno protestato in questi giorni contro l’ipotesi una riforma legislativa, che ridurrà notevolmente i poteri del Tribunale Supremo e modificherà il sistema di elezione dei giudici. Con questa misura il governo di Netanyahu acquisirà il controllo sulla nomina dei giudici, compresi quelli facenti parte della Corte Suprema. I manifestanti urlavano che esigevano si mantenesse la separazione tra i diversi poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, infranta invece dalla riforma. In definitiva, in Israele – come del resto è avvenuto ovunque a partire dalla crisi della pandemia - si mette in discussione anche la democrazia formale.
Di fatto, non dobbiamo scandalizzarci, si tratta di ordini assai diffusi volti a colpire i propri avversari politici, ne è un esempio la proibizione dell’uso della parola comunista in Turchia fino al 1992. D’altra parte, sempre in Turchia, nel 2018 è stato condannato a 11 mesi di carcere Kemal Okuyan, segretario del Partito Comunista di Turchia (TKP), il quale sarebbe stato reo di aver insultato il Presidente Erdoğan, probabilmente solo esprimendo le sue idee politiche. Diritto ormai sempre meno riconosciuto, se teniamo conto che anche nella Repubblica Ceca è stato condannato, il 31 ottobre 2022, a otto mesi di reclusione Josef Skála, intellettuale marxista, ex vicepresidente del Partito comunista di Boemia e Moravia (KSCM), insieme con Vladimír Kapal, e Juraj Václavík, per aver messo in discussione la versione che attribuisce ai sovietici la responsabilità del massacro di Katyn [v. articolo di A. Catone in appelli?].
Nel giugno del 2021 anche la Germania ha preso misure simili allo scopo di salvaguardare le sue relazioni con quei paesi che hanno al loro interno minoranze fortemente ostili e combattive. Praticamente sono state proibite nella potenza egemonica europea tutte le bandiere appartenenti a formazioni considerate dalla UE terroristiche, quali quella di Hamas, del Fronte di liberazione della Palestina e del Partito comunista delle Filippine, tutte entità che hanno simpatizzanti sul suolo tedesco. La proibizione dell’esposizione della bandiera di Hamas, cui probabilmente seguirà anche quella del PKK, ha avuto come giustificazione il fatto che, nel corso di varie manifestazioni, realizzate durante un periodo di scontri tra Israele e Hamas, erano stati pronunciati slogan antisemiti, o forse solo antisionisti (distinzione che è più comodo non fare), una sinagoga era stata attaccata e alcune bandiere israeliane erano state bruciate. In quel frangente era intervenuto il Consiglio Centrale degli ebrei della Germania che aveva comunicato di essere stato oggetto dei più violenti insulti e aveva invitato le autorità tedesche a proteggere con maggior cura le istituzioni ebraiche.
Un ultimo esempio di questi comportamenti, il cui scopo è la cancellazione di simboli importanti, nei quali si esprimono idee e concetti altrettanto importanti che per esser comunicati hanno necessariamente bisogno di un qualche supporto materiale, può esser individuato nella rimozione della bandiera wiphala di sette colori propria dei popoli andini nell’ambito del colpo di Stato contro Evo Morales, il quale ingenuamente si era fidato dell’Organizzazione degli Stati americani e del suo segretario generale Almagro. Questo colpo di Stato, di cui gradualmente si rendono note le modalità e le complicità, fu definito “al litio” a causa delle grandi riserve di questo minerale possedute dalla Bolivia, il cui controllo fa gola a molti, in primis alla Germania e alla Cina. In realtà, con la sua politica debole e fatta di concessioni verso le forze conservatrici, lo stesso Morales può essere considerato corresponsabile di questi tragici eventi che condussero alle dimissioni dei più rilevanti dirigenti del MAS, tra cui il vicepresidente Alvaro Garcia Linera, un ideologo del socialismo del XXI secolo, e alla violenta repressione delle popolazioni indigene insorte in difesa del governo legittimo.
Questi episodi meramente politici, ma non effimeri, di fatto rimandano a una questione filosofica generale più profonda, il cui esame getta luce sullo stile autoritario dei più disparati governi, che ovviamente non caratterizza solo la nostra sciagurata epoca. Tale questione si richiama alla definizione di simbolo che deve essere inteso come lo strumento necessario e indispensabile del pensiero, nel senso che i contenuti di quest’ultimo si costituiscono anche nell’individuazione del mezzo più adeguato di manifestarsi per essere comunicati e recepiti dagli altri. Ne consegue che cancellare i simboli, implica immancabilmente dissolvere i loro contenuti, inevitabilmente sostituendoli con altri simboli ed altri contenuti, che rafforzino il potere non più discutibile dei dominanti.