Quel tratto centrale di Wall Street rappresenta il cuore pulsante dell’odierno capitalismo finanziario globale e transnazionale, sovrastato dai templi moderni e contemporanei, come il Trump Building (non a caso) e il neoclassico edificio della Stock Exchange, (la Borsa di New York) che ospitano la principale cabina di regia che sovrintende al quotidiano e sempre più rapido, complesso e mutante processo di continua metamorfosi di merce e denaro, e sempre coltivando l’illusione di poter cortocircuitare il processo per creare denaro dal denaro facendo a meno della merce, e, quindi, del lavoro.
Ma in questo sabato di inverno newyorkese, per una volta, le migliaia di cosiddetti “colletti bianchi” della finanza, i sacerdoti di quei templi, i componenti delle troupe che mandano in onda ogni giorno lo spettacolo della finanza globale, che calpestano quotidianamente quel suolo con il passo veloce dettato dalla competitività esasperata e dal rampantismo sfrenato, hanno lasciato il terreno ad una massa, non numerosissima per la verità, ma assolutamente compatta e rumorosa, arrabbiata e allo stesso tempo allegra e variopinta, proveniente in larga parte dalle periferie e dai sobborghi popolari della città, lavoratori e militanti, uomini e donne che hanno osato sfidare, anche qui, nella loro roccaforte globale, il nuovo vento prepotente dell’imperialismo che vorrebbe liberarsi della maschera farisea della democrazia liberale e della retorica dei diritti umani per affermare, nudi e crudi, i suoi obiettivi di dominio e di sfruttamento, a tutti i costi.
Non siamo più ai tempi di “Occupy Wall Street”, qualche anno fa, quando in questi stessi luoghi sembrò possibile, a quegli uomini e donne proletari e antagonisti, toccare il cielo con un dito e fare piazza pulita una volta per tutte di quei templi e dei loro sacerdoti, per le sofferenze che i loro capricci e la loro avidità smisurata avevano causato a gran parte della popolazione americana pochi anni prima.
Ma la memoria collettiva, si sa, tende ad affievolirsi nel tempo, soprattutto in questi tempi di pensiero unico globale che si nutre di mezzi e strumenti di una potenza mai vista nella storia umana.
Così, quel sabato di febbraio a Wall Street, a fare da avanguardia, speriamo, a queste masse dominate, era un nutrito e combattivo gruppo di diverse centinaia di militanti ed attivisti che si sono riuniti insieme, nonostante le loro divisioni e differenze, per mostrare, con rabbia e determinazione, la loro volontà di ribellione e di denuncia del vergognoso attacco imperialista americano, orchestrato dall’amministrazione Trump, al popolo venezuelano, mirato a porre fine all’esperienza coraggiosa e eretica della repubblica bolivariana costituita dal suo leader Chavez ed oggi capeggiata da Nicolas Maduro.
Importante e significativa la dimostrazione di unità e compattezza tra tutte le principali componenti della sinistra radicale statunitense, partiti, organizzazioni, movimenti, non soltanto quelli di orientamento marxista (CPUSA, Workers World Party, Socialist Workers, Party for Socialism and Liberation, ecc.) ma anche forze quali, ad esempio, il Green Party (partito dei Verdi), Black Lives Matter, Black Power, Answer Coalition, Movimiento Sem Terra (dal Brasile), The Militant, The Writers Union (sindacato degli scrittori), e tanti altri, che non sarebbe possibile qui elencare tutti.
Tanti gli interventi e le testimonianze che abbiamo raccolto. Riportiamo alcuni passaggi tra i più significativi.
Il rappresentante di Black Power, distinguibile nel giubbotto e nel berretto di pelle nera e nel foulard rosso al collo, come un gruppo di suoi compagni schierati frontalmente al palco, ha ricordato che l’attacco congiunto dell’imperialismo USA e delle oligarchie venezuelane è anche un attacco diretto alle popolazioni indigene e di origine africana del Venezuela, dove il conflitto di classe spesso assume le forme anche dell’oppressione razziale. Ha inoltre evidenziato il parallelismo tra la crisi sociale e politica in Venezuela e quella analoga in atto nello Zimbabwe, entrambe scatenate ad arte per mezzo dello strangolamento economico da parte delle potenze imperialiste, USA in primis.
Un altro intervento ha richiamato la subdola strategia imperialista che ha messo in moto anche l’apparato diplomatico per fare pressioni sulle Nazioni Unite, normalmente boicottate e snobbate, per guadagnarsi la foglia di fico di una risoluzione che autorizzi l’intervento a scopo umanitario, vero “cavallo di troia” per giustificare poi la presenza militare in appoggio al colpo di stato in atto.
Un rappresentante del Green Party ha fatto notare come alla base della forte esposizione dell’amministrazione Trump in questa crisi scatenata ad arte, stanno non soltanto i fin troppo evidenti interessi dell’industria petrolifera, ma anche quelli della ricostruzione, analogamente a quanto avvenne in Iraq a suo tempo.
La rappresentante dei lavoratori del MTA (l’azienda pubblica dei trasporti di New York), oltre ad esprimere la solidarietà ai lavoratori fratelli del Venezuela, ha ricordato che la guerra è già in atto da tempo, ed è una guerra economica che ha sottratto al Venezuela riserve valutarie pari a 9 miliardi di dollari, causando ulteriori perdite per 6,5 miliardi.
Incontro un signore di mezza età, che sostiene un cartello del Workers World Party, ma dice di essere soltanto un simpatizzante, ed è accompagnato dalle due figlie adolescenti. Lui è cubano, è venuto a lavorare negli USA ma mi dice di amare la sua patria socialista e mi esprime, con un’espressione di velata angoscia, tutto il suo timore per questo attacco al Venezuela che avrà delle conseguenti anche su Cuba e potrebbe preludere ad una resa dei conti dell’imperialismo USA, con un contraccolpo economico non indifferente, vista la grande importanza del petrolio venezuelano che dai tempi di Chávez ha contribuito in maniera decisiva a garantire l’indipendenza cubana.
Una compagna attivista della rivista The Militant, d’altro canto, mi ricorda il grande contributo che Cuba ha dato all’esperienza socialista in Venezuela, con migliaia di medici, insegnanti, tecnici volontari, molti dei quali si trovano ancora lì e rischiamo di rimanere coinvolti anche loro in un eventuale conflitto militare.
Prende intanto la parola un compagno di origine serba, che ha vissuto la tragica esperienza dei bombardamenti USA su Belgrado, ricordandoci che proprio in questi giorni cade il 20° anniversario di quel vergognoso atto di guerra imperialista, avvenuto con la vile complicità di tutte le cancellerie europee. Incita alla resistenza ed alla fratellanza e, con uno slancio commosso, risponde ai media mainstream che vogliono farci credere di essere noi dalla parte sbagliata della storia, ma in realtà oggi è l’imperialismo dell’Occidente e della NATO dalla parte sbagliata della storia, visto che la gran parte della popolazione mondiale gli si oppone già e gli si opporrà sempre con maggiore forza.
L’intervento di chiusura è affidato ad una giovanissima compagna, dolcemente agguerrita, che lancia degli slogan di lotta con una voce penetrante, che scalda i cuori e le menti di tutti i presenti e li invita a partire in corteo, per sfilare a testa alta sotto il colonnato della borsa e sotto i quartieri generali dell’alta finanza. Oggi, lorsignori, i padroni di Wall Street siamo noi, compagni e lavoratori che, per nascita o per radici, proveniamo da tutti gli angoli del pianeta, come i capitali che voi amministrate.