Sebbene la regola dell’unanimità entri in contraddizione con il tanto sbandierato processo di unificazione europea, essa è nondimeno utilizzata ogniqualvolta ciò faccia comodo alla borghesia transnazionale; a dimostrazione del fatto che, al di là dei proclami ideologici, nella direzione di sviluppo dell’Unione europea si alternano cosmopolitismo, nazionalismo e sovranismo in modo sempre strumentale agli interessi dei poteri forti, cioè delle classi dominanti. Emblematico è l’esempio della fiscalità, anch’essa non a caso demandata al principio “nazionalistico” e sovranista dell’unanimità. Anche in tal caso si vogliono impedire, a ogni costo, regole comuni e princìpi universalisti che potrebbero pesare sul bilancio delle imprese e porre in discussione la sacralità della proprietà privata. In tal modo, i singoli governi dell’Unione sono spinti dalla libera concorrenza e dall’assenza di vincoli legislativi a ridurre il più possibile l’imposizione fiscale al padronato di modo da attrarre e gelosamente custodire gli investimenti esteri. Tuttavia, torna a questo punto più comodo il principio opposto del cosmopolitismo, che qui assume le fattezze del famigerato “patto di stabilità” sancito una volta per tutte a Maastricht e che impone a ogni singolo stato nazionale, in tal caso in barba al sovranismo, soglie molto basse di deficit pubblico. Il carico fiscale non coperto dalle grandi imprese, alle quali sono sistematicamente ridotte le imposte, deve necessariamente ricadere sui lavoratori salariati e sulla tassazione diretta che discrimina, necessariamente, i redditi più bassi, è funzionale alla costante e progressiva riduzione delle spese sociali, cioè ricada, inevitabilmente, sulla parte indiretta del salario che i padroni “elargiscono” alle classi subalterne (proletariato e sottoproletariato) nel loro complesso.
Davvero abnorme l’abbaglio preso da chi, come Tony Negri, ha sostenuto la progressività del Trattato costituzionale e, più in generale, dell’unificazione in quanto spazzerebbero via gli stati nazionali e, in tal modo, dovrebbe favorire l’internazionalismo, in tal caso confuso con il cosmopolitismo [1]. In realtà, degli Stati nazionali il cosmopolitismo imperialista intende cancellare unicamente il diritto dei popoli all’autodeterminazione, non certo le funzioni repressive e il sostegno assicurato a massimizzare l’estrazione del plusvalore. Si tratta, inoltre, di rendere maggiormente competitive le merci delle multinazionali europee rispetto a quelle del sud-est asiatico, giapponesi o statunitensi e, dunque, di comprimere i costi della forza-lavoro nelle sue forme indirette (istruzione, sanità, sedicente “stato sociale”) e dirette (salari, con l’accrescimento del pluslavoro assoluto mediante l’aumento dell’orario di lavoro attraverso straordinari irrinunciabili e retribuiti meno del lavoro ordinario e con l’incremento del plusvalore relativo grazie all’accelerazione dei ritmi di produzione e al taglio radicale dei “tempi morti”). Tali politiche sono ancora una volta espresse in tutta la loro chiarezza nel Trattato, in seguito reimposto con gli accordi di Lisbona, che costringe ogni stato membro dell’Unione europea a far dipendere le politiche sociali dalla “creazione delle condizioni necessarie per la competitività dell’industria”, di nuovo alla faccia del sovranismo. Tali condizioni, non negoziabili, sono: “flessibilità della manodopera e del mercato del lavoro”, cioè massimizzazione del processo di precarizzazione delle attività lavorative già sancito nel Trattato.
Le borghesie hanno, dunque, inteso garantire base giuridica sin nella Costituzione alla politica antisociale condotta dall’Unione europea sin dalla sua nascita. La strategia di liberalizzazione dei servizi sociali, cui mirano diverse direttive della Commissione e del Consiglio, sottoscritte dal Parlamento europeo, è formalizzata nel Trattato ed è divenuta a tutti gli effetti operativa con i successivi accordi di Lisbona. La stessa dizione di servizi pubblici è radicalmente bandita dai trattati e sostituita sistematicamente con la locuzione “servizio di interesse economico generale”. Tale dizione, volutamente oscura persino nel progetto di Costituzione, è stata esplicitata dalla Commissione europea nel Libro Bianco del 2004: i parlamenti nazionali eletti sono vincolati nel legiferare su servizi di interesse economico generale, cioè sui servizi pubblici al fatto che essi non siano già forniti da privati e, in ogni caso, al rispetto delle sacre regole della concorrenza, in barba al principio democratico del diritto dei popoli alla costituzione e allo spirito di Costituzioni democraticamente avanzate, anche in termini di diritti economici e sociali, come era quella italiana, almeno fino all’inserimento dell’inderogabilità del pareggio di bilancio, garanzia di continuità delle politiche di austerità. Il problema, purtroppo, non è solo terminologico, con il termine viene in effetti meno il concetto stesso di servizio pubblico, cioè la fornitura a prezzi politici di alcuni servizi di carattere sociale, il che, naturalmente, costituisce un ulteriore attacco alla componente indiretta del salario. Dunque, già con il Trattato costituzionale, in seguito realizzato dai successivi accordi, i poteri pubblici locali, regionali e nazionali non possono più fornire attività di servizio alle quali tutti possano avere accesso e i cui costi siano a carico della collettività, ovvero della tassazione indiretta, quantomeno proporzionale ai redditi percepiti se non fortemente progressiva con l’aumentare delle entrate. Portare acqua, luce, gas o telefono sino all’ultimo abitante d’un piccolo centro non è certo redditizio e colui che ne fa richiesta non fa fronte ai costi. Si renderebbe necessario l’intervento dello Stato, ma in tal modo si violerebbero le sacre regole della concorrenza e del libero mercato! Ergo, deve essere vietato!
Se, dunque, per un verso le masse popolari rifiutano generalmente di partecipare alla farsa delle elezioni europee, per l’altro, quando decidono realmente di prendervi parte, come nel caso dei referendum in Francia e Olanda sul Trattato costituzionale o della Brexit nel Regno Unito, finiscono per votarvi contro. Molti commentatori interessati si sono affrettati a sottolineare l’atteggiamento meramente negativo delle masse e, tuttavia, si tratta d’una presa di posizione comunque significativa, in quanto estende il suo No all’intero apparato ideologico di cui si è servita la borghesia per far accettare la Costituzione: mass-media, governi, Banca centrale europea, Partito socialista europeo, Partito popolare europeo, verdi, organizzazioni padronali, Centrale sindacale europea (CES).
Tale è stata la delusione che persino diversi esponenti socialisti hanno gettato la maschera sostenendo che era stato un errore sottoporre al voto popolare una questione tanto delicata, che le masse non avrebbero potuto comprendere. La democrazia è dunque utile solo quando fa comodo alla borghesia; in caso contrario non sono i governi o gli apparati sovranazionali e ideologici a doversi dimettere ma, piuttosto, le stesse masse.
Il voto contrario, in assenza d’una adeguata organizzazione del dissenso popolare, non ha impedito al contraddittorio processo d’unificazione della borghesia europea di condurre innanzi la sua strategia di attacco ai salari e, più in generale, ai diritti dei lavoratori conquistati in due secoli di lotte. L’unificazione europea rende tanto più agevole, anche dal punto di vista ideologico, l’attacco alle condizioni di lavoro e di vita delle classi subalterne, al quale i poteri forti non intendono in ogni caso rinunciare. Le politiche antipopolari dei diversi governi, spesso di centro-sinistra, vengono giustificate quali necessarie all’integrazione europea e, dunque, sottratte alla sfera della discussione e della mediazione proprie della politica. L’attacco alle pensioni, lo scippo del Tfr, la privatizzazione delle imprese pubbliche, sino alla sanità e all’istruzione, le contro-riforme di scuola e università, i tagli al sedicente “Stato sociale”, le finanziarie “lacrime e sangue” vengono giustificate metafisicamente con la necessità d’adeguarsi agli standard europei. Ciò non comporta affatto un bilanciamento dei diritti fra le classi lavoratrici dei differenti paesi, ma il massacro generalizzato delle conquiste proletarie tanto dei paesi più benestanti del nord Europa quanto di quelli a più elevato tasso di sfruttamento del sud. L’adeguamento agli standard europei, essendo il processo d’integrazione del tutto nelle mani della classe dominante, avviene sempre e in ogni caso verso il basso.
La Costituzione europea, del resto, avrebbe dato unicamente la spallata decisiva a far crollare le legislazioni nazionali più avanzate dal punto di vista sociale. I precedenti trattati, che vincolavano i diversi governi, avevano già assestato un duro colpo alle conquiste del movimento dei lavoratori. Il dogma liberista, che rifiuta sdegnosamente ogni politica di regolazione economica alla base della Costituzione e del conseguente Trattato di Lisbona, non fa che sancire una lunga serie di sconfitte dei lavoratori. Che i padroni trionfanti non intendessero fare prigionieri pare evidente dal confronto fra Trattato costituzionale e Costituzione italiana. Se quest’ultima ancora pretende di subordinare il governo dell’economia a “fini sociali”, nel Trattato europeo sono i poteri pubblici a essere mere appendici della società civile, sulla base del principio di sussidiarietà. L’amministrazione pubblica ha ormai funzione residuale, di supplenza alle “forze del mercato”, nel caso in cui i privati non fossero ancora in grado di trarre un consistente profitto da una qualche attività o servizio sociale.
Del resto, pur non disponendo d’alcuna competenza per la spesa sociale, l’Unione detiene “competenza esclusiva” per quel che concerne “l’unione doganale, le regole della concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la politica monetaria dei Paesi che hanno adottato l’euro, la politica commerciale comune” (art. I-12). Gli stati non dispongono più della possibilità di difendere le proprie imprese con una politica protezionista, mentre possono, anzi, sono spinti a competere con le industrie dei paesi più avanzati riducendo le retribuzioni della forza-lavoro. In tal modo, la libera concorrenza europea nasconde la corsa dei singoli stati nazionali a ridurre diritti e conquiste del movimento dei lavoratori.
Tanto più che, pur lasciando da parte la Costituzione, nel processo di unificazione qualsivoglia importante decisione strutturale è stata sistematicamente sottratta a ogni forma di controllo delle masse. Alla sua base vi è il dogma monetarista, che per garantire il libero sviluppo del “dio mercato” bisogna considerare non eretiche le sole politiche macroeconomiche volte al pareggio del bilancio. Da ciò deriva la sacrale autonomia della BCE, cittadella proibita per gli intoccabili rappresentanti eletti della politica. Del resto già il Trattato di Maastricht, vero e proprio credo della Costituzione europea, sottrae alla legittimazione popolare le leve principali del governo dell’economia.
Note: [1] De Filippis, Vittorio e Losson Christian, “Sì”, per fare sparire questa merda di Stato-nazione. Intervista a Tony Negri, in “Liberation”, 13/5/05.