E’ opinione diffusa nella sinistra di classe e radicale che esista ormai nel blocco Occidentale [1] un solo imperialismo, quello statunitense, che tratti gli altri paesi del blocco come sue proprie appendici coloniali [2]. Questa riproposizione della teoria dell’ultraimperialismo o superimperialismo di Kautsky ha nefaste conseguenze sull’agire politico. Da una parte favorisce dei compromessi politici con formazioni estranee alle concezione marxiste, se non agli antipodi stessi del marxismo e anche del socialismo utopistico, in quanto sarebbe necessario riconquistare, in primis, la sovranità nazionale persa con la sottomissione agli Stati Uniti. Di conseguenza prima di rompere politicamente con i gruppi politici che rappresentano la propria borghesia nazionale, più spesso la fazione piccolo-borghese, bisognerebbe liberare il proprio Paese dal giogo neocoloniale. Dall’altra parte favorisce letture errate della storia e concezioni politiche riformistiche, che vedono nella vittoria di un imperialismo su tutti gli altri la nascita di un’epoca capitalistica di pace, sviluppo e prosperità per l’umanità che releghi la guerra a uno strumento obsoleto, caratteristico del passato.
Tali concezioni portano a sostegno della loro tesi diversi fattori economici e politici. È indubbia la predominanza politica degli Stati Uniti sull’Unione Europea, e a cascata, dell’Unione Europea sui singoli stati nazionali, ad esclusione di alcuni, perché non tutti gli stati dell’Unione sono sullo stesso piano. Molto diffusa in tal senso è la lettura dell’Unione Europea come appendice della Germania e di torsione delle politiche europee verso i suoi interessi nazionali a scapito di quelli degli altri Paesi europei. Evidenze della predominanza politica degli Stati Uniti sulle nazioni europee sono state il suicidio economico imposto all’Unione Europea con la guerra alla Russia, con lauti profitti per i capitalisti d’oltreoceano, e la subalternità della valuta e del sistema finanziario europeo a quello statunitense; si pensi alla difficoltà per le nazioni europeee a commerciare con Paesi sotto sanzioni statunitensi. Anche nell’ambito delle industrie strategiche per le varie borghesie nazionali, come ad esempio quella militare o quella elettronica, si evidenzia una subalternità europea nei confronti dello stato egemone, gli Stati Uniti. Sul piano politico è chiaro come l’Unione Europea, non senza contraddizioni interne tra gli stati nazionali, vada sostanzialmente al rimorchio degli Stati Uniti, aderendo politicamente, in modo più o meno convinto, a tutte le campagne tese allo strangolamento economico e all’isolamento politico degli stati ribelli all’imperialismo a stelle e strisce.
Queste evidenze di subalternità sono condizione sufficiente a negare la presenza di un imperialismo europeo? No, essendo presenti evidenze della sua esistenza e di come questo talvolta si muove in modo autonomo e contrapposto a quello statunitense. Già Lenin, nel 1915, preconfigurava che gli Stati Uniti d’Europa sotto il capitalismo, ovvero l’Unione europea, sarebbero stati un’unione dei capitalisti europei contro il socialismo e per contrastare l’ascesa dell’imperialismo statunitense e giapponese [3]. Questo quadro di conflittualità interimperialistica tra imperialismi alleati spiega l’attacco speculativo ai titoli di stato ellenici del 2010 e tramite essi all’euro [4], contro cui Draghi rispose con il suo celebre “bazooka”. Un’altro esempio di guerra economica tra “fratelli coltelli” è dato dai dazi reciproci imposti tra Unione Europea e Stati Uniti, si pensi alla guerra di dazi legata alle dispute su Boeing e Airbus, o ai dazi che Trump sta per mettere in atto per ridurre il deficit della bilancia commerciale statunitense nei confronti dell’Europa. Infine si potrebbe ricordare che la guerra alla Libia di Gheddafi nel 2011 partì per iniziativa del presidente francese Sarkozy e non degli Stati Uniti, come invece generalmente è accaduto per altre guerre avviate insieme dagli imperialismi occidentali. Oppure venendo a fatti più recenti, si può considerare la volontà dell’Unione Europea di continuare ad oltranza la guerra alla Russia tramite l’Ucraina anche con il progressivo disimpegno degli Stati Uniti.
Anche all’interno dell’Unione Europea, che non costituisce un polo imperialistico univoco, sono ben visibili dei contrasti tra imperialismi concorrenti; contrasti sui quali gioca l’imperialismo d’oltreoceano per indebolire la posizione collettiva europea a proprio vantaggio. Emblematico fu l’intervento nel 2008 del governo Berlusconi per bloccare l’acquisto della compagnia aerea di bandiera Alitalia da parte della holding franco-olandese Air France-Klm a vantaggio di una svendita a dei capitalisti italiani, i cosiddetti “capitani coraggiosi” [5]. Significativi sono stati i contrasti tra gli interessi economici tedeschi e quelli italiani in occasione del blocco da parte della commissione Ue del gasdotto South Stream a vantaggio del concorrente Nord Stream 2; in quell’occasione dietro l’intervento della Commissione europea, in Italia, fu vista la lunga mano di Berlino.
Non è questa la sede per analizzare le diverse contraddizioni tra imperialismi alleati, poiché sarebbe necessario affrontare ogni singola contraddizione in modo più approfondito in un articolo specifico. Questo articolo si focalizzerà sull’imperialismo italiano e sull’errore strategico che si commette a non considerarlo tale. Un’analisi economica attenta, che fa uso della ricca bibliografia economica del capitalismo italiano, non può riconoscere che l’Italia è un Paese imperialista, in cui la concentrazione e centralizzazione dei capitali ha raggiunto un elevato grado di sviluppo formando monopoli, spesso, per motivi storici, di origine statale, che esportano capitali all’estero. Se ne possono citare solo alcuni: Fininvest (editoria-informazione), Ferrero (alimentare), Ferrovie dello Stato (trasporti), Eni (idrocarburi). Altri monopoli si sono fusi con gruppi industriali stranieri, come il caso della ex-Fiat (automobile) oggi Stellantis, diventando transnazionali e mantenendo nel Paese un predominio produttivo. Il predominio produttivo assicura a tali monopoli vantaggi verso la concorrenza dei monopoli stranieri rendendo più competitiva la circolazione delle merci, sebbene non possano esercitare prezzi da monopolio in un mercato mondiale, data la concorrenza esercitata dai gruppi monopolistici stranieri.
L’evidenza di tale monopolio è data dalla sostanziale subalternità delle industrie satellite italiane a questo unico produttore, che lo rendono di fatto l’unico committente dei rami di impresa esternalizzati con il modello produttivo toyotista [6]. Questo monopolio della Fiat è stato più presente al Sud Italia che non a Nord, dove nel tempo si sono diffuse anche numerose imprese satellite dei grandi gruppi automobilistici tedeschi. Oggi, non a caso, con il sostanziale disimpegno di Stellantis dal nostro Paese e con la crisi dell’industria dell’auto tedesca, è a rischio la produzione dell’automobile in Italia, con pesanti ricadute sull’indotto dipendente da questi “unici” committenti. Tutti i tentativi di dar vita a poli produttivi di automobili nel nostro Paese da parte di gruppi stranieri, ultimi i cinesi, hanno sempre visto un ostruzionismo del governo di turno, sotto diretto dettame del gruppo monopolistico Fiat-Stellantis. Questa vicenda è emblematica di come alcuni tratti caratteristici dell’imperialismo si possono osservare nella storia del gruppo Fiat-Stellantis: ovvero la subalternità del potere politico a quello economico, la putrefazione monopolistica che blocca l’innovazione e il parassitismo con il progressivo spostamento dei capitali dal settore produttivo a quello della speculazione finanziaria.
Dal punto di vista commerciale l’implementazione di misure protezionistiche ha storicamente il ruolo di proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza straniera. Si pensi ai dazi americani verso la Cina, o a alle misure protezionistiche europee per difendere i propri agricoltori. Trump è passato all’azione su quanto esplicitato in campagna elettorale, ovvero di voler implementare misure protezionistiche sia per favorire lo sviluppo della propria industria nazionale, in modo da “rendere nuovamente grande l’America”, sia per far desistere i proprio alleati da effettuare resistenza alla penetrazione di merci americane nei propri stati. Questo modo di intendere i dazi come arma di ricatto è caratteristico della nuova amministrazione americana, e indica che la guerra economica sarà diretta non solo contro i “nemici” del BRICS, che stanno progressivamente riducendo la dipendenza dal dollaro, ma anche contro gli “alleati” europei, rei di non comprare abbastanza merci americane per ribilanciare la bilancia commerciale a favore degli Stati Uniti.
La subalternità mostrata in diverse occasioni dall’Unione Europea agli Stati Uniti come può essere spiegata se sono due imperialismi a volte concorrenti tra di loro? Tra i due poli imperialistici, quello americano e quello europeo, vige una sorta di compromesso analogo a quello fatto in Italia tra gli agrari del Sud e gli industriali del Nord. Il compromesso tra classi dominanti di Nord e Sud fu svantaggioso dal punto di vista economico per gli agrari del Sud ma fu finalizzato a perpetuare il loro dominio sui ceti subalterni del Mezzogiorno. Ugualmente l’Unione Europea si trova in una posizione subalterna nel compromesso con gli Stati Uniti, ma con il chiaro intento di partecipare, sebbene come azionista di minoranza, alla predazione economica e al dominio neocoloniale del resto del Mondo. In modo analogo la classe dominante italiana, come quella di altri Paesi europei, ha accettato un ruolo subalterno nell’Unione Europea al fine di schiacciare sempre di più la propria classe lavoratrice. Il compromesso è finalizzato ad acquisire maggiore forza nella lotta di classe nel proprio Paese, anche grazie al ruolo egemonico degli intellettuali tradizionali, legati alla borghesia, che hanno fatto credere al proletariato italiano che l’Unione Europea fosse un “Sol dell’avvenire” invece che un progetto finalizzato alla compressione salariale e all’annientamento dell’organizzazione di classe dei lavoratori. Così come nel compromesso tra le classi dominanti italiane si intraprese la strada del protezionismo, che favorì il Nord a scapito del Sud perpetuandone la subalternità economica, anche nel compromesso tra blocchi imperialisti Occidentali si sta intraprendendo la strada del protezionismo nel conflitto con i Paesi emergenti, in particolare oggi verso Russia e Cina. Anche in questo caso il protezionismo Occidentale sta favorendo economicamente una parte a scapito dell’altra parte alleata. Così, mentre gli Stati Uniti si avvantaggiano di ciò, l’economia dell’Unione Europea viene progressivamente indebolita, portandola alla recessione e alla stagflazione. Tanto che all’interno dell’Unione Europea sembra ci sia la volontà di smarcarsi dalla guerra commerciale statunitense alla Cina.
Una corretta analisi dei rapporti tra le classi dirigenti e tra i vari stati imperialisti è fondamentale per le scelte politiche finalizzate all’azione trasformatrice della società. Individuare le connessioni ma anche i contrasti offre maggiori spazi all’agire politico. Un’analisi errata può invece condurre a parole d’ordine e alleanze nefaste per la trasformazione della società. Credere che il proprio Paese sia un’appendice coloniale di altri, quando invece è parte del blocco imperialista, può far approdare verso posizioni nazionaliste di alleanza con le classi sfruttatrici del proprio Paese. Posizioni politiche che sono antitetiche all’internazionalismo e all’alleanza con le classi sfruttate degli altri Paesi. Difendere poi le pretese imperiali della propria classe dirigente come interessi nazionali, oltre che essere espressione del peggiore opportunismo, fa allontanare da una prospettiva rivoluzionaria che dovrebbe, invece, vedere nella rovina della classe dirigente nazionale un’opportunità per rompere la catena imperialista dove è possibile romperla, nell’anello più debole. La rottura di questo anello debole favorirà la caduta di tutta la catena.
Note:
[1] Il blocco comprendente i paesi anglosassoni, quelli europei, il Giappone, la Corea del Sud e Israele. Sull’esistenza o meno di altri imperialismi le posizioni nella sinistra di classe divergono profondamente. Alcuni considerano la Cina un paese non solo capitalista ma anche imperialista, altri non sono concordi a considerarla anche solo capitalista, pur praticando un’economia di mercato, ritenendo, invece, in atto una NEP in salsa cinese. Alcuni includono anche la Russia tra i paesi imperialisti, altri anche le potenze regionali quali Iran, Turchia, Brasile e altri stati.
[2] Anche nella sottomissione dei Paesi Occidentali agli Stati Uniti ci sono divergenze. C’è chi considera tutti i Paesi sottomessi e chi concede maggiori margini di autonomia ad alcuni Paesi, come la Francia, che non hanno basi americane sul proprio territorio e dispongono di un proprio arsenale nucleare, nonché di un proprio spazio neocoloniale, la “Francafrique”.
[3] Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, Sozial-Demokrat n. 44, 23 agosto 1915
[4] Francesco Schettino, Metti una sera a Manhattan, La Contraddizione n. 131, aprile-giugno 2010
[5] Ironia della sorte proprio il governo “nazionalista” Meloni, dopo le pesanti ristrutturazioni avvenute negli anni, ha svenduto per circa 325 milioni di euro la profondamente ridemensionata compagnia area di bandiera ITA Airways, erede di Alitalia, alla tedesca Lufthansa, che aveva già provato ad acquistarla nel 2008.
[6] Per una quadro dell’esternalizzazione dei rami di impresa da parte della Fiat, tipici del modello produttivo toyotista, si consiglia una lettura del testo “Pomigliano non si piega”, a cura del circolo Prc Fiat-Auto-Avio Pomigliano, edito dalla A.C. Editoriale Coop.