Dall’antico germanico gwarra (mischia), la guerra – conflitto armato fra popoli o fra fazioni all’interno di uno Stato – è un evento sociale e politico di ampie dimensioni che può essere considerato una funesta costante della storia, almeno fino ai nostri giorni, anche se è profondamente mutato il modo di concepirla. In questo scritto ci occuperemo delle nuove peculiarità che hanno caratterizzato il concetto di guerra.
In effetti, nell’ultimo trentennio la propaganda bellica ha dato alla guerra dimensioni globali sistemiche, fino a declinarla secondo i connotati teologici di un conflitto fra bene e male, civiltà e barbarie, inaugurato dal considerare la guerra un’operazione di polizia internazionale, ovvero un’azione di “polizia globale”. La visione manichea della guerra come scontro fra la civiltà e la barbarie può essere considerata una variante, molto adoperata, in particolare dal Presidente degli Stati Uniti, della “Guerra contro il Terrore”.
In verità, il nuovo modo di intendere la guerra non fa che esplicitarne il carattere religioso [1]: in effetti quando il conflitto si riduce alla lotta fra “bene” e “male” non può che assumere una valenza assolutizzante.
D’altra parte dall’analisi più rigorosa di questa contrapposizione emerge che in verità si ha a che fare più con le regole della pubblicità politica contemporanea che con un conflitto genuinamente religioso. Non si tratta di una novità: già nel caso del conflitto in Kosovo, Tony Blair aveva parlato di “lotta del bene contro il male”, e non aveva mancato di definire il “nemico”, Slobodan Milosevic, come “il Diavolo”. Tutte queste operazioni linguistiche diventano pervasive, soprattutto quando fanno appello a concetti già esistenti e proposti in modo da non risultare problematici al punto che nessuno ritiene di doverli definire. È questa griglia ideologica che consente di far ricorso a termini grandiosi, ma ambigui come libertà, giustizia, umanità, bene e male che hanno consentito di connotare i conflitti più recenti come forme della guerra infinita della civiltà – naturalmente occidentale – contro la barbarie, di norma orientale.
Tale processo raggiunge il suo apice nella guerra al Terrore. Vale la pena di notare come già il termine terrore sia adoperato, nel contesto della “guerra al terrore”, in modo assolutamente improprio. In effetti si trasforma una tattica (il terrorismo) in un nemico: il terrorista, o meglio – perché ancora più impersonalmente – nel concetto indefinito e metafisico di terrore, in cui il nemico è sottratto allo status di combattente ed è considerato un “criminale” o un “barbaro”. Questa metafora ci induce quasi automaticamente a considerare naturale e, quindi, ad accettare che la “guerra al terrore” sia proprio come è stata definita dai governi di Bush. Si tratta di un cliché che merita di essere esaminato in dettaglio.
Chi cercasse una conferma concreta dell’affermazione di George Lakoff secondo cui “le metafore possono uccidere”, può fare tranquillamente riferimento alla definizione dell’attentato alle Twin Towers come un “atto di guerra”. Lo stesso Lakoff osserva come la prima definizione adoperata per l’attentato, quella di un “crimine” i cui autori dovevano essere “assicurati alla giustizia”, fu abbandonata in poche ore, a favore appunto di quella di “guerra”. È importante notare che proprio grazie a questa indebita ridenominazione come un “atto di guerra” di quello che era un attentato terroristico gli Stati Uniti ottennero dall’Onu il via libera per l’aggressione all’Afghanistan. In questo modo, una guerra metaforica ha aperto la strada a una guerra vera.
Possiamo inoltre ravvisare nella definizione “guerra al terrore” che il nemico non può che apparire oltremodo sfuggente, anche se – d’altra parte – è sfuggente proprio in quanto è definito in modo tanto generico e non considerato nel contesto storico che ha contribuito a determinarlo. Il nemico finisce così con l’apparire quasi incorporeo, invisibile e incomprensibile, al punto che per poterlo debellare, pare necessaria una guerra asimmetrica tendenzialmente senza una possibile fine [2]. Così, pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Afghanistan, Bush poté affermare con tranquillità: “la nostra guerra contro il terrore è solo agli inizi… È cominciata bene, ma è solo cominciata”.
Di conseguenza è mutato il modo di condurre i conflitti: abbiamo, in effetti, guerre asimmetriche, dell’informazione, psicotroniche e climatiche. I nuovi scenari bellici mondiali sono caratterizzati dal terrorismo e le sue tecniche, dalla guerra condotta attraverso le manipolazioni dei media, le azioni di piraterie sul web, le turbative dei mercati azionari, la diffusione di virus informatici e altre armi non tradizionali. Al di là dei nuovi tipi di armamento, dei metodi di combattimento, delle finalità strategiche, delle fonti di finanziamento e dei soggetti coinvolti, le odierne guerre di quarta generazione sono caratterizzate dal tendenziale dissolversi dei confini tra confronto militare e politico-economico, fra soldati e civili, al punto che con esse tende ad affermarsi uno stato d’eccezione permanente.
Le guerre contemporanee hanno spesso la caratteristica di essere “preventive”, con il dubbio risultato di punire la presunta intenzione del nemico di nuocere, con prove che si sono rilevate, in seguito, quantomeno discutibili. Nel caso iracheno c’è poi un’aggravante, trattandosi di una guerra fatta non soltanto per impedire di nuocere prima che il contendente abbia nociuto, ma addirittura prima che sia provato che egli possa nuocere. A dispetto dell’ovvietà che anche il presidente Usa Harry Truman aveva dovuto ricordare a chi gli chiedeva di effettuare un attacco nucleare “preventivo” contro Unione Sovietica e la Cina: “l’unica cosa che si previene con la guerra è la pace”.
Tale nuova concezione del conflitto bellico, che ha scosso l’intero diritto internazionale, su cui si sono basati i rapporti fra i popoli, ha dunque il proprio fondamento nel conflitto di civiltà e nella guerra preventiva, nelle quali, per definizione, non è riconosciuta all’avversario alcuna legittimità. La teoria della guerra preventiva è il cardine centrale di questa politica, che si muove esplicitamente contro ogni regola e norma internazionale finora alla base della convivenza dei popoli e degli Stati del mondo. Il diritto internazionale, la dottrina politica, il principio etico che ha permesso fino a oggi di raggiungere un precario equilibrio tra le diverse forze e le culture nel mondo, rischiano di essere pesantemente violati con conseguenze disastrose. Da una realtà definita da una nuova legittimazione, quella per cui realizzare il compito della difesa significa anticipare l’attacco del nemico, ne consegue una totale reinterpretazione delle relazioni internazionali e una crisi dei codici e delle regole degli Stati.
A questo punto, occorrerebbe domandarsi quali scenari imprevedibili apre il ricorrere alla “guerra preventiva”, cioè accettare la logica della “guerra civile” estesa su scala planetaria? Allo stesso modo ci si dovrebbe interrogare se non è aporetico pretendere di superare lo “stato di natura” con i mezzi, preventivamente usati, dello stesso “stato di natura”?
Tanto più che la dottrina della “guerra preventiva” deve essere concepita non come mera ideologia, ma come il sintomo di una più generale situazione di ritorno a uno stato politico premoderno, nel quale non esiste più justus hostis. Sorge, così, il problema se le categorie morali siano applicabili anche alla guerra – cioè al diritto di ricorrere alla guerra (“ius ad bellum”) e al comportamento dei combattenti (“ius in bello”) – o se non sia inevitabile, invece, che la violenza comporta in primo luogo la fine dell’ordine e che la guerra implica per definizione l’interruzione di quei rapporti e di quei legami che sono o possono essere regolati da criteri morali.
Nelle odierne metamorfosi della guerra rischiano, dunque, di apparire obsoleti i vincoli giuridici che hanno sinora regolato lo stato di belligeranza e gli strumenti per una soluzione politico-diplomatica. I principi della Convenzione di Ginevra e, più in generale, del dialogo rischiano di apparire superati e si corre il rischio di dover convivere con un permanente stato d’eccezione di fronte a uno stato altrettanto permanente di guerra. In effetti, quest’ultimo, si profila sempre più come un evento “normale”, con cui saremo destinati a convivere a lungo, rendendo ardua una soluzione negoziale delle guerre. Si rischia così di giustificare ogni azione militare, anche se lede la tradizionale etica bellica e favorisce la normalizzazione dello stato d’eccezione. Gli stati liberali tendono ormai a "trasformare l’eccezione in regola sotto l’influenza della loro concezione del nemico. Insomma, non vi sarebbe più contrasto fra regola ed eccezione in quanto quest’ultima finisce con il divenire la nuova regola.
Senza contare che l’attribuzione al nemico dell’occidente dell’esclusiva del terrore porta, ad esempio, a escludere dal novero degli atti terroristici i bombardamenti. Ora il carattere terroristico dei bombardamenti aerei è così poco segreto da essere contenuto nelle definizioni ufficiali delle operazioni militari: gli stessi alti comandi Usa diedero nel 2003 il nome “Colpisci e terrorizza” (“Shock and Awe”) ai bombardamenti su Bagdad. Inoltre, la criminalizzazione del nemico ha favorito la sperimentazione in tutte le ultime guerre di nuovi sistemi d’arma, anche vietati dall’ordinamento internazionale, nelle condizioni reali del teatro bellico.
Tanto più che il “terrorista” non è un avversario al quale si possa riconoscere legittimità, perciò la “guerra al terrore” rischia di coprire, sino a giustificare l’utilizzo, la tortura. Non a caso la guerra al terrore è stata la “giustificazione” del trattamento dei “nemici combattenti” rinchiusi a Guantanamo e delle ripetute violazioni della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra.
Il mancato riconoscimento dell’avversario fa sì che Il nemico è sempre illegittimo e la sola alternativa per lui è l’annullamento nichilistico. Così, sempre più, si mira ad annientare, piuttosto che a sconfiggere l’avversario. Carl Schmitt ha descritto il processo di disumanizzazione dell’avversario necessario allo Stato imperialistico per muovere guerra in nome di interessi universali, umanitari. In altri termini, la “guerra giusta” è antipolitica, tende, a non rispettare più le regole tradizionali; l’avversario è considerato in un’ottica totalizzante e tende a essere disumanizzato. Parafrasando Schmitt si potrebbe dire che oggi è sovrano colui che stabilisce chi è uno Stato canaglia, contro il quale diviene legittima una guerra senza quartiere e senza regole.
Note:
[1] Ci si potrebbe domandare: cosa è la “guerra giusta”, la bushiana lotta del bene contro il male, se non la sostituzione della politica con la teologia?
[2] La durata indefinita di questa “guerra” stata enunciata nel documento Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America, del settembre 2002: “La guerra contro i terroristi su scala mondiale è un’impresa mondiale la cui durata è indefinibile”.