Le elezioni europee del 7 e dell’8 Giugno 2024 si sono svolte in tutta Europa in un clima surreale, con i massimi esponenti della Commissione Europea che, attraverso dichiarazioni pubbliche, invitavano ad un'ulteriore escalation militare nei confronti della Russia. A ridosso delle elezioni Macron, Scholtz e la Von Der Leyen dichiaravano esplicitamente un cambiamento di passo verso la guerra alla Russia: non è più sufficiente l’invio delle armi in Ucraina ma bisogna cominciare a pensare all’invio di soldati, si deve riproporre la leva obbligatoria, bisogna investire nell’economia di guerra, inviare armi a lunga gittata per attaccare direttamente il territorio russo, coinvolgendosi in forma sempre più diretta.
Di fronte a questa follia il dato che colpisce è che, se si escludono alcuni casi isolati, il voto popolare, in tutta Europa, ed in particolare in Italia, non si è contraddistinto per un secco “no” alle politiche belliciste in chiave progressista, ma ha prodotto un mantenimento relativo delle forze governative (il PPE in primis) e, dove questo non è avvenuto – come in Francia – ha prodotto un deciso spostamento a destra dell’elettorato (il partito ultra-nazionalista della Le Pen). Anche in questo caso, un ruolo importantissimo lo ha svolto l’informazione, oscurando completamente la tenuta delle forze della sinistra (36 seggi al gruppo GUE più altri di forze di sinistra che non vi aderiscono) e concentrando, ovunque fosse possibile, l’alternativa politica tra forze liberali di centro-sinistra e forze sovraniste di destra.
Se assumiamo il presupposto che una parte delle forze ultra-nazionaliste di destra, almeno a parole, cercano di differenziarsi dalle politiche ultra-bellicistiche del blocco conservatore incarnato dalla Von Der Leyen possiamo intuire come ci sia un preciso meccanismo che opera nelle classi dirigenti europee e che si manifesta immediatamente nelle proiezioni, nei sondaggi, e, più in generale, nell’intera visione del mondo della classe dominante dei paesi dell’UE espressa dai suoi organi d’informazione: la politica bellicista e l’impianto ordo-liberista non debbono essere messi in discussione e, soprattutto, il dogma imprescindibile è che le questioni sociali non debbono essere collegate con la critica antiimperialista all’economia di guerra. I due piani vanno separati: la sinistra può anche rivendicare alcune questioni di natura antiautoritaria ma non deve mettere in discussione l’economia di guerra su cui questa poggia, così come risulta funzionale che forze di estrema destra o di destra cavalchino in parte delle posizioni estremamente filo-atlantiste sulla Russia (cosa che, invece, non accade mai sulla Palestina) perché potrebbero essere utili nel momento in cui, per mantenere il potere in una situazione di crisi, si dovesse fare ricorso ad un accresciuto livello di autoritarismo sul piano interno.
Il paradosso principale è che è evidente agli occhi di tutti che è stata proprio la politica protezionista di guerra condotta dagli USA e dall’UE quella che ha prodotto sul piano economico i livelli più alti di recessione che hanno pesato esclusivamente sui lavoratori e sui settori popolari. Questo fatto economico concreto, evidente a tutti, è come se fosse uscito dalla campagna elettorale, rimosso come un tabù. Il ruolo principale della classe dominante è stato proprio questo e, dobbiamo riconoscere, che nel complesso ci sono riusciti. Per gli Europei, ed in particolare per gli Italiani, rompere questo tabù, trasformare l’indignazione per l’impoverimento subito in progetto politico consapevole e di massa rappresenta un passaggio estremamente complesso, appare (o vuole fatto esser apparire) un obbiettivo attualmente poco praticabile; il rifiuto verso le politiche di guerra è generalizzato ma si manifesta più come paura verso il futuro, oppure come indignazione morale verso il genocidio di Israele in Palestina ma, come tutte le paure, è un dato che vien stigmatizzato, che è proiettato in un luogo lontano e verso cui ci si limita a d un indignazione morale.
Sono questi i motivi principali per cui il sistema mediatico – espressione diretta e consapevole della classe dominante – ha spesso buon gioco a spostare l’attenzione dell’elettorato su piani più emozionali contingenti, rimuovendo le contraddizioni di fondo, le radici economiche e le soluzioni per i problemi che gli uomini vivono. Relegare l’essenziale a questione marginale significa trasmettere il senso dell’impotenza, la disaffezione verso la politica, alimentare, più o meno consapevolmente, l’astensionismo, nella speranza di mantenere sempre saldo il controllo sulle coscienze degli sfruttati, mostrandogli che il pacifismo, l’internazionalismo, il riscatto dalle proprie condizioni di miseria, sono una vana illusione, mentre la realtà che conta è il dominio incontrastato degli sfruttatori, l’arbitrio dell’Occidente nei confronti del Terzo mondo, il razzismo, il mantenimento del lusso e degli extra-profitti nonostante l’impoverimento delle masse, etc.
Non riusciremo mai a capire quanto è forte e pervasiva questa dinamica di controllo delle coscienze se non ci poniamo nell’ottica della classe dominante. In Italia essa ha fatto di tutto per mantenere salda questa egemonia: è stata disposta a perdere una parte rilevante di quote nel mercato internazionale, ha demolito una parte delle più importanti imprese pubbliche e del settore manifatturiero, ha ridotto la politica a pura amministrazione dell’esistente, ha trasformato la politica estera in una pura e semplice appendice della NATO, ha strozzato le classi popolari con la mannaia del debito pubblico, ha frazionato i lavoratori, con la complicità dei dirigenti sindacali, in frazioni sempre più particolari e corporative, ha alimentato il mito della supremazia morale ed economica dei Paesi occidentali, ha posto le giovani generazioni di fronte al dilemma della disoccupazione, della iper-precarietà o dell’emigrazione, ha alimentato il razzismo e la xenofobia verso i popoli del Terzo mondo e verso gli immigrati.
Sciogliere tutte queste contraddizioni significa essere in grado di cominciare ad elaborare una via d’uscita dalla crisi che ci attanaglia, immaginare un progetto politico praticabile in un contesto di enorme frammentazione, riprendere il discorso sulla critica alla guerra imperialista ma trasformarlo in un atto d’accusa alla classe dominante italiana attraverso un programma che sia credibile. Il problema principale è tutto nella credibilità: il conflitto sociale non scaturisce immediatamente dalle contraddizioni internazionali, pur essendo da queste causato, i settori sociali si muovono o per disperazione oppure perché l’attacco che subiscono ha superato un punto critico che fa sedimentare rabbie e delusioni a lungo represse; e la ragione sta nel fatto che i ceti subalterni subiscono l’ideologia dominante, la loro e la nostra coscienza naturale ne è immersa o per lo meno fortemente condizionata. Il problema della credibilità è tutto nella prospettiva. Come usciamo dalla crisi? Cosa pensiamo di proporre in alternativa all’economia di guerra? Con quali forze politiche e sociali ci possiamo alleare per contrastare questa deriva in modo che le masse possano intuire vagamente una via d’uscita dalla crisi e cominciare a sentirsi rappresentate? Sono queste le domande a cui, credo, non sappiamo ancora dare risposta. Ma porre le domande in maniera corretta o, per lo meno, in modo non scontato, significa cominciare ad impostare il problema e a cercare concretamente la soluzione.