Nelle ultime settimane, come noto, il Cile è stato investito da un'enorme esplosione di rabbia popolare, conseguenza di una lunga accumulazione di disagio e frustrazione in ampi settori della popolazione. Le sue radici sono profonde: al di là delle cifre sulla crescita economica che vengono diffuse, la concentrazione dei profitti nelle mani una piccola minoranza e le enormi disuguaglianze che si perpetuano hanno fatto detonare la mobilitazione.
Sebbene la maggioranza della popolazione abbia avuto accesso a livelli di consumo più elevati, ciò è stato reso possibile più dall'indebitamento che dai salari garantiti da posti di lavoro precari e malpagati cui può aspirare la gran parte dei lavoratori. Negli ultimi anni, la sopravvivenza è diventata sempre più costosa e difficile.
Come conseguenza dell' incontenibile ondata di protesta, il governo ha annunciato in diretta televisiva il varo di un'agenda sociale in dieci punti, fingendo di rispondere con ciò al malcontento dei cittadini e di prospettare un processo di soluzione della crisi. Come prevedibile, l'annuncio non solo è risultato tardivo ma largamente insufficiente, con misure che sostanzialmente riallocano e aumentano la spesa pubblica, ma senza tradursi in una maggiore tassazione a carico dei grandi capitali e quindi senza colpire l'enorme disuguaglianza che genera la rabbia della maggioranza della popolazione.
Non solo tali misure non contemplano alcuna riforma strutturale capace di modificare il modello neoliberista in applicazione, ma non implicano nemmeno l'accantonamento delle riforme pensionistiche, fiscali e del lavoro che Piñera e il suo governo avevano già presentato in parlamento prima dell'esplosione della mobilitazione popolare: tutte misure di natura chiaramente favorevole al padronato.
I movimenti sociali, le forze della sinistra parlamentare e i gruppi militanti più decisamente anticapitalisti hanno respinto con vigore quel programma, facendo eco al sentimento maggioritario della popolazione e nelle mobilitazioni, l'invocazione delle dimissioni di Piñera è lo slogan più ricorrente. Risulta ormai chiaro che non è più sufficiente cambiare dei ministri e neppure l'intero esecutivo, ma che occorre porre fine a questo governo e nominarne uno provvisorio per la transizione verso un nuovo regime politico tramite la convocazione di elezioni generali.
La rivendicazione di un'Assemblea Costituente cresce e sta guadagnando centralità. Lo si è evinto chiaramente dal bilancio dello sciopero generale dello scorso 23 ottobre, indetto da Unidad Social, lo spazio unitario delle maggiori organizzazioni sindacali, dei lavoratori e degli inquilini, che si è costituito pochi mesi fa e che in questi giorni ha assunto maggiore ampiezza e validità.
Un elemento preoccupante delle mobilitazioni è che, insieme alle espressioni maggioritarie di disobbedienza civile, si registrano atti di violenza - saccheggi e incendi - che potrebbero far deragliare il processo e aprire la strada a una risposta repressiva delle forze dell'ordine e dell'esercito che sarebbe fatale. Dietro la violenza opera non solo la delinquenza comune - figlia della povertà estrema -, ma anche l'azione di gruppi politici che credono nella violenza come percorso antisistemico, oltre che l'infiltrazione delle forze repressive del sistema.
Chi ci guadagna? Senza dubbio le classi dominanti, che in virtù di ciò giustificano il contenimento della protesta popolare tramite la repressione. È così che il governo ha potuto dichiarare lo stato di emergenza e imporre il coprifuoco in una buona parte del paese. C'è da temere che questo possa portare a un numero imprevedibile di uccisioni. Solo nei primi cinque giorni di protesta di massa si sono contati diciannove morti.
Le organizzazioni e i movimenti sociali stanno strutturando alcuni spazi unitari per cercare una via d'uscita dalla crisi, dialogando con gli attori politici, tutti ampiamente superati dagli eventi. La prima rivendicazione che essi, così come il Partito Comunista del Cile e il Frente Amplio - le forze della sinistra parlamentare - hanno avanzato come condizione per il dialogo è che venga revocato lo stato di emergenza e i militari vengano ritirati dalle strade.
Le mobilitazioni e gli scioperi non hanno smesso di susseguirsi negli ultimi giorni, ma appare chiaro come il popolo e le sue organizzazioni, dopo quasi 50 anni di neoliberismo militare e civile, non siano oggettivamente e soggettivamente in condizione di assumere criticamente la direzione degli eventi. La CUT, la principale confederazione sindacale, è stata condotta a una crisi profonda dai dirigenti legati ai partiti politici di centrosinistra, così come le associazioni di categoria maggioritarie e persino alcune nuove organizzazioni che tendono rapidamente a staccarsi dalla loro base e sono tentate dal parlamentarismo.
Pertanto, in questo frangente, il compito dei settori militanti, delle loro organizzazioni e dei molteplici collettivi popolari è quello di accrescere il loro livello di organizzazione, la loro maturità politica, la loro appartenenza militante ed essere pronti a cercare elementi di convergenza che permettano loro di aprire la strada alla costituzione di riferimenti politici locali, regionali e nazionali.
La crisi nazionale non si risolverà immediatamente o con la profondità necessaria perché il padronato, i suoi intellettuali e le istituzioni sono investiti dalla medesima crisi e non sono in grado di formulare una proposta strategica per il paese. Non esiste una concentrazione di forze politiche che possa produrre un ribaltamento conservatore o proporre una soluzione di destra. Non ci sarà un golpe o un auto-golpe, né ci sarà un'insurrezione popolare o una rivoluzione. Verranno applicate misure immediate per calmare la rabbia e la frustrazione della maggioranza che protesta. Misure parziali e insufficienti, ma che avranno un effetto palliativo nel far decantare la pressione proveniente dalla piazza. Tali misure saranno tanto più efficaci, nella misura in cui le classi dominanti saranno capaci di spingere il maggior numero possibile di soggetti a compromettersi tramite l'accordo che verrà raggiunto per introdurle.
La questione rilevante è se, da parte delle forze sociali a favore di profondi cambiamenti, si darà luogo o meno a un processo costituente e di rifondazione dal basso. Se si avvierà un processo di costruzione di organismi consiliari di potere popolare a livello locale che inizino a controllare e dirigere i processi di cambiamento a partire dai loro territori. È dando vita a un processo di questo tipo che sarà possibile sviluppare uno strumento politico nazionale, oggi assente, per aprire la via a un reale cambiamento storico.