“Chile despertó” – il Cile si è svegliato – è uno dei cori che più risuonano in queste settimane di agitazione, ritmate dall’incessante rumore di pentole dei cacerolazos. Da quale sogno, o meglio incubo si sta svegliando (speriamo!) il Cile? E quali sono le cause del precedente “sonno”? Per scoprirlo, torniamo un po’ indietro nel tempo.
Nel 1988, dopo 15 anni di una delle più brutali dittature del secolo scorso, in Cile si indice un referendum. Il quesito (se possiamo chiamarlo così) è estremamente semplice e sintetico: “Augusto Pinochet Ugarte”, e più giù le classiche due opzioni “SI” e “NO”. Il referendum era stato previsto dalla stessa costituzione cilena, quella di Jaime Guzmán, approvata – nel 1980 – sotto dittatura e ratificata anch’essa con un plebiscito.
Il NO vince ed inizia la cosiddetta transizione verso la democrazia (processo dal quale veniamo esclusi, guarda caso, noi comunisti). Nei trent’anni successivi la costituzione – nonostante varie modifiche per via parlamentare – e il modello economico iperliberista rimangono sostanzialmente intatti.
Molti cileni guardano oggi a quel periodo come una specie di truffa o “pico en el ojo” (espressione un po’ volgare la cui traduzione lascio al lettore [1]), con buona pace dell’apologia da parte di Saviano del processo referendario cileno.
Nel 2008, quando arrivai in Cile, senza conoscere a fondo, come invece adesso, questo bellissimo paese e la sua storia, notai quasi subito molte stranezze. Innanzitutto, mi sorprese non poco la contraddizione nei termini che vi ho appena raccontato, quella di un paese sedicente democratico in cui era ancora vigente una costituzione scritta da un feroce regime dittatoriale, famoso nel mondo per desaparecidos, torture, gente rinchiusa negli stadi e per lo sprezzo dei diritti umani in generale.
Un’altra cosa che mi colpì come un pugno nell’occhio fu la disuguaglianza, così marcata da far apparire il Cile non come un solo paese, ma due. Il mondo dei pochi ricchi o benestanti, e quello del resto del paese.
Poi cominciai a notare altri piccoli dettagli: di politica si parlava raramente, e quando lo si faceva era in genere a bassa voce; il livello di sfiducia nel prossimo, di individualismo e di arrivismo era altissimo; i mezzi di comunicazione ed i tg, sembravano ciechi o non interessati ai gravi problemi che menzionavo poc’anzi e che abbiamo già approfondito in un’altra occasione su questo stesso giornale.
Tutto ciò contrastava ai miei occhi con un paese che provava a dare di sé stesso un’immagine di “normalità”, o addirittura di prosperità. Qualcuno (tra cui i soliti noti) presentava addirittura questo modello come uno degli esempi di maggiore successo del cosiddetto “neoliberismo”. Provai quindi ad analizzare il nuovo mondo in cui mi trovavo sotto vari aspetti ed angolature, e a dare a me stesso una spiegazione che mi accingo a condividere con voi.
Degli aspetti economici abbiamo già parlato. Le importazioni di capitali, gli squilibri di bilancia di conto corrente e la speculazione immobiliare hanno drogato artificialmente la crescita. La privatizzazione di tutti i servizi essenziali e le divisioni poco solidaristiche delle risorse di bilancio tra i diversi quartieri, hanno contribuito ad alimentare la disuguaglianza e praticamente eliminato la mobilità sociale. L’enorme debito privato, causato da un capitalismo che non distribuisce ricchezza ma ha sempre un disperato bisogno di produrre e di vendere (e non solo vestiti o macchine, ma anche medicine e corsi di studi) è stato d’altro canto una delle armi di ricatto e di schiavizzazione più efficaci nelle mani del potere.
Dal punto di vista sociale, mi convinsi che il popolo cileno nel suo complesso soffrisse ancora il trauma della dittatura: 17 anni di terrore non avrebbero potuto non lasciare il segno. La paura che il vicino potesse fare la spia alla DINA (la polizia segreta di Pinochet) era ormai interiorizzata, e il popolo cileno nel suo complesso si comportava come colui che – avendo ricevuto maltrattamenti da bambino – da grande diventa prepotente e violento coi più deboli ed eccessivamente sottomesso e remissivo coi più forti.
Sul piano politico e mediatico, infine, constatai semplicemente che i rapporti di forza erano stati fin troppo consolidati dalla “tabula rasa”, l’annientamento dell’opposizione al regime, e dalla successiva costruzione della dittatura. Le grandi imprese, i mezzi di comunicazione, e purtroppo anche molti esponenti politici avevano formato reti di potere troppo forti da poter essere rotti da una semplice “transizione” referendaria in stile “liberi tutti”. Senza contare altri aspetti, quali per esempio il quorum del 75% richiesto per cambiare molte parti fondamentali della carta costituzionale per la via parlamentare, oppure il peso degli interessi delle multinazionali straniere che – ricavando enormi guadagni dal welfare o dall’estrazione delle materie prime del paese – in un modo o nell’altro “remavano contro” qualsiasi cambiamento che non fosse semplicemente di facciata o poco più.
E così, il cileno – oppresso da debiti, privato della speranza di un ascensore sociale, traumatizzato e abbruttito dalla ferocia della dittatura, prigioniero di una casta politico-economica autorefereziale ed inamovibile – “sonnecchiava” da tre decenni, sornione.
Fino a quando il governo di Sebastian Piñera decide di aumentare, per l’ennesima volta, il biglietto della metro: 30 pesos, corrispondenti più o meno a 40 centesimi di euro che, come vedremo gli stanno costando molto cari.
Gli studenti, che già nel 2006 si erano sollevati con la rivolta dei “Pingüinos” [2], chiedendo un’istruzione gratuita e di qualità, ancora una volta si dimostrano essere la vera avanguardia: masse di adolescenti ed universitari saltano tornelli e sfondano cancelli per non pagare. Il motto “evade” corre di bocca in bocca, si scrive sui muri, si pubblica sulle reti sociali.
Ma questo è solo l’inizio.
Venerdì 18 ottobre anche il resto dei cileni “si sveglia”. Masse di manifestanti scendono in piazza e agli angoli delle strade, fanno barricate e si armano di una pentola e di un mestolo: è il “cacerolazo”, una classica protesta cilena che venne usata, per ironia della sorte, per la prima volta dalla opposta riva di destra contro il governo di Salvador Allende.
“Non sono 30 pesos, sono 30 anni” dicono scritte e cartelli. “Piñera dimettiti” è trending topic non solo per le strade di Santiago ma anche – a livello globale – su Twitter. Molti pure gli striscioni e i manifesti contro il capitalismo, il neoliberismo, lo sfruttamento, l’indebitamento, contro il lucro su istruzione, sanità e pensioni, o con la richiesta di un’assemblea costituente.
La protesta si esprime non solo graficamente, ma anche in musica. “Il Cile si è svegliato”, come già detto, è uno dei cori più ascoltati. Le canzoni che più risuonano nelle piazze e nelle strade in festa sono invece “El derecho de vivir en paz” (“il diritto di vivere in pace” di Victor Jara, cantante torturato, mutilato e poi ucciso nel famigerato Estadio Nacional), “El pueblo unido jamás será vencido” reso noto in Italia dagli Inti-Illimani, ma anche “El baile de los que sobran” (“il ballo dei superflui”) del gruppo locale “Los Prisioneros”.
Durante la prima settimana, come abbiamo visto nel mio ultimo articolo, il governo di Piñera decide di fare un tuffo nel passato più grigio del Cile: dichiara lo stato d’emergenza – il quale contempla tra altre cose conferire poteri eccezionali all’apparato militare – e addirittura il coprifuoco. Purtroppo, e – anche se in misura molto minore – proprio come ai vecchi tempi, la repressione non consiste solo nell’obbligare i cileni a tornare a casa presto o nell’uso (smodato) di lacrimogeni. I numeri pubblicati dall’INDH (Instituto Nacional de los Derechos Humanos) su morti, feriti, arresti e violenze sessuali di vario tipo, crescono di giorno in giorno. Ci sono perfino denunce di desaparecidos, e sulle reti sociali si moltiplicano i video che mostrano un uso smodato e spesso superfluo della forza.
I militari ed i carabinieri, troppo accaniti nel reprimere proteste in larga maggioranza pacifiche, non sono invece così efficaci nel prevenire gli episodi di vandalismo ed i saccheggi. I mezzi di comunicazione tendono in larga parte ad amplificare questi eventi, diffondendo panico ed allarmismo; si formano quindi file davanti ai supermercati ed alle panetterie, mentre gruppi di cittadini organizzano ronde di quartiere notturne (tra l’altro proibite dal coprifuoco) nei quartieri più disagiati. Parallelamente, il governo promette il blocco degli aumenti del prezzo del biglietto della metro, e qualche altra concessione sociale, come per esempio l’aumento della pensione minima da 110 a 130 mila pesos (circa 180 euro). Addirittura, il parlamento approva a larga maggioranza il proposito di legiferare sulla riduzione dell’orario lavorativo a 40 ore (in luogo delle attuali 45), progetto di legge presentato dal Partito Comunista e precedentemente molto osteggiato dalla coalizione maggioritaria di centro-destra Chile Vamos.
La “casta cilena” composta da governo, grandi imprese, esercito e mezzi di comunicazione dunque offre “il bastone” della repressione e della tensione e “la carota” di piccole migliorie al sistema, metodo ampiamente sperimentato in Cile e altrove. Purtroppo per loro – e per fortuna per il popolo cileno – la strategia adottata durante la prima settimana si rivela questa volta un vero e proprio fallimento.
Le grandi imprese soffrono la paralisi, mentre i piccoli negozietti di quartiere cominciano invece a poco a poco a funzionare senza file; pacifici cittadini disobbediscono al coprifuoco (nonostante in Cile spesso non si esiti a lanciare lacrimogeni anche in presenza di famiglie o bambini); cabildos, cioè assemblee di quartiere autoconvocate, si diffondono a tappeto in tutto il territorio nazionale provando a mettere nero su bianco le rivendicazioni e i principi di una nuova costituzione, grazie ad un’alleanza di tutti i movimenti di protesta e sindacali, denominata la Unidad Social, la quale coordina, con una accurata metodologia, le varie azioni.
A livello internazionale, inoltre, aumenta la pressione per le evidenti e ripetute violazioni di diritti umani, ricordate giornalmente dai numeri pubblicati dall’INDH (definiti ottimisti dalla croce rossa cilena), mentre sul fronte nazionale Piñera cade in un altro scivolone mediatico con la infelice dichiarazione “siamo in guerra”.
La ciliegina sulla torta è un audio WhatsApp della “Primera Dama” cilena Cecilia Morel, filtrato ed immediatamente virale in rete, in cui la moglie del presidente incaricato paragona il movimento di protesta a “un’invasione aliena”, ammette candidamente che “non abbiamo gli strumenti per affrontarla” e che toccherà “ridurre i privilegi e condividere qualcosa con il resto della gente”. Apriti cielo! Il messaggio, oltre a scatenare ilarità, espressa con cartelli e “meme” sui Social Network, manifesta l’impotenza delle istituzioni e legittima ancora di più le rivendicazioni del popolo in lotta.
La fin troppo abusata metafora della “pentola a pressione” esplosa, calza a pennello con la gioiosa e liberatoria disobbedienza civile scatenatasi; la sfiducia si trasforma in abbracci, di politica si parla eccome – e dappertutto – senza paura e ad alta voce; l’angoscia e la rassegnazione si tramutano, come d’incanto, in speranza. La famosa frase di Allende “la historia es nuestra y la hacen los pueblos” (la storia è nostra e la fanno i popoli) sembra essersi concretizzata tutta ad un tratto. Anche i quartieri meno disagiati, o addirittura più ricchi, si uniscono alle proteste pacifiche.
Tutto ciò rappresenta non solo una liberazione “catartica” (speriamo definitiva) dai traumi dell’oppressione degli anni ’70 ed ’80, ma anche un efficace antidoto ideologico alle barriere parlamentari, costituzionali e mediatiche a cui abbiamo accennato prima: la sfiducia ora viene diretta verso coloro i quali hanno costantemente impedito un vero cambiamento, e cresce la volontà di disintermediazione rispetto ad istituzioni ormai delegittimate e sfiduciate.
Venerdì 25 di ottobre, inizio della seconda settimana di proteste, è una giornata storica per il Cile. A Plaza Italia scende un vero oceano di persone – 1,2 milioni secondo i calcoli, alle quali si aggiungono altre decine di migliaia nel resto del paese. Il re è nudo, e appare evidente ai più che la strategia governativa e mediatica non ha funzionato. La disapprovazione al governo di Piñera arriva quasi all’80% (mentre l’83% è d’accordo con le manifestazioni), gli arresti superano quota 3.000, con più di 500 feriti e due decine di morti. I cittadini toccano con mano la repressione dei carabinieri e dell’esercito, e fa molto scalpore l’episodio di un osservatore dell’INDH che viene colpito da 7 pallini sparati dalla polizia.
La “dichiarazione di guerra” di Piñera gli si ritorce contro: analisti e semplici cittadini constatano che, se di guerra effettivamente si tratta, allora il presidente la sta conducendo contro il suo stesso popolo.
Alle grandi imprese comincia a mancare l’ossigeno della produzione, e la nuova parola d’ordine è il “ritorno alla normalità”. Piñera annuncia ed attua un rimpasto ministeriale, oltre a eliminare coprifuoco e stato d’emergenza, e vengono promessi aumenti anche al salario minimo, insieme ad un pacchetto di aiuti sociali, tra i quali il condono dei debiti del CAE (Crédito con Aval del Estado, una specie di mutuo con garanzia statale per pagare gli elevatissimi costi universitari) a quegli ex-studenti ancora indebitati e che, con le leggi di “gratuità” promulgate dall’ultimo governo di Bachelet, non avrebbero pagato. D’altro canto, il governo rilascia dichiarazioni indicando che una nuova costituzione, chiesta a gran voce dalla grande maggioranza dei manifestanti, “non è una priorità”.
Le TV iniziano (non avendo altra scelta) a simpatizzare coi manifestanti e a dare voce alle loro rivendicazioni; durante il fine settimana molti lavoratori cileni ricevono dalle proprie aziende mail che li avvisano che l’orario lavorativo sarà normalizzato, salvo casi particolari, a partire dal lunedì. La strategia della seconda settimana prevede infatti provare in modo più blando a canalizzare la protesta verso acque più tranquille, più istituzionali: progetti di legge, inviti a trasmissioni televisive, oppure modifiche costituzionali per via parlamentare. In sintesi, il ritorno del Gattopardo – una nuova “transizione” che lasci i punti cardine del modello così come sono.
Nelle masse, invece, cresce la coscienza dell’occasione storica e del fatto che solo continuare ad esercitare pressione nelle strade e nelle piazze potrà portare al raggiungimento dei veri obiettivi sociali della protesta cilena: una nuova costituzione, un nuovo modello economico che provi a garantire quantomeno una maggiore giustizia sociale ed equità.
Anche il fronte parlamentare di opposizione (PC e parte della coalizione di sinistra Frente Amplio) si dimostra attivo, raccogliendo le firme necessarie per una “acusación constitucional” (una specie di impeachment) a Piñera e al ministro dell’interno Chadwick. Quest’ultimo peraltro ormai non più in carica, a causa del rimpasto citato precedentemente. Un processo relativamente lungo, ma che aggiunge ulteriore pressione verso il governo già di per sé ampiamente delegittimato e contestato.
Inizia la terza settimana di proteste, le quali si susseguono nonostante il ponte (giovedì 31 ottobre e venerdì 1° novembre sono festivi in Cile). Anche i Cabildos – veri esercizi di democrazia dal basso e di auto-organizzazione – continuano con ampia partecipazione popolare.
Il ritorno al lavoro di lunedì 4 di novembre (oggi per chi vi scrive) è caratterizzato – fin dal mattino – da proteste, carovane, blocchi del traffico in varie zone del paese. Da Santiago a Valparaíso, da Concepción a Viña del Mar, da Antofagasta a Temuco fino ad arrivare al profondo sud di Punta Arenas, tutto il Cile ribolle.
Alla ormai giornaliera marcha delle 17 di Plaza Italia, si registra ancora una volta una massiccia presenza di persone che protestano. Io, come moltissimi cileni, sono da 18 giorni in lotta. Da 18 giorni camminiamo e marciamo insieme, insieme respiriamo lacrimogeni col gas al peperoncino, suoniamo le nostre pentole ed accendiamo le nostre candele, e ci riuniamo in assemblee per cominciare a disegnare la democrazia del Cile del futuro. E non ci fermeremo, fino a che non ne varrà veramente la pena. Lo dobbiamo anche a tutti gli arrestati, feriti, violentati, o uccisi durante questi giorni. Abbiamo il dovere di assicurare che il loro sacrificio non sia invano.
E a voi, in Italia… non viene voglia di fare lo stesso? L’esperienza cilena può insegnare che il vero cambiamento si ottiene solo lottando e partecipando di persona, in massa e senza le intermediazioni dei soliti noti. Evitando però la sterile antipolitica, purtroppo abbastanza in voga non solo in Italia ma in tutto il mondo, la quale tanto nuoce alla lotta, alla sua organizzazione ed ai suoi obiettivi.
Note:
[1] Per aiutare il lettore italiano possiamo dire che la traduzione letterale sarebbe “un membro nell’occhio” che corrisponde a un altro nostro modo di sfrontato che meno metaforicamente indica la parte lesa
[2] Dei pinguini, denominazione dovuta alla tradizionale uniforme indossata dagli studenti