Una delle battaglie su cui siamo impegnati nel Pcch (Partido Comunista Chileno) del mio quartiere è la lotta alla crescente prepotenza dell’industria immobiliare, alimentata da una bolla speculativa che fa malissimo all’economia del paese. Sono frequenti colpi bassi dei comuni, tipo passaggi dei piani regolatori cancellati o modificati. Dall’altra parte il Pcch conta sull’unità delle organizzazioni di base contro questi comportamenti.
Ma in Cile esistono sempre due verità. La destra ci racconta che la domanda di abitazioni sta aumentando esponenzialmente. Grazie anche, o forse soprattutto, all’arrivo di molti immigrati, in particolare dalla povera Haiti. La TV parla della deplorevole nascita di miniappartamenti, con letti calati dalle pareti. Delle “poblaciones” e dei ghetti verticali in Cile, abbiamo già parlato su questo giornale. A volte – ultimamente sempre meno per fortuna – questo discorso prende piede anche tra le persone comuni.
I dati, invece, ci raccontano un’altra storia (i grafici sono una elaborazione propria di dati INE di quest’anno e degli ultimi censimenti). La popolazione aumenta, ma il ritmo della speculazione immobiliare va più forte. Nei primi due grafici si vede l’aumento della popolazione e delle unità abitative nella capitale, Santiago.
Popolazione di Santiago 1992-2017
Numero di unità abitative a Santiago 1992-2017
Per cui la quantità media di persone per abitazione scende costantemente:
Numero di abitanti per unità abitative a Santiago 1992-2017
Prendono invece volo i prezzi (elaborazione di Centro UC CLAPES su dati di un popolare sito di alloggi cileno), soprattutto quelli delle vendite, che distanziano i prezzi degli affitti.
Indice dei prezzi delle case e degli appartamenti per affitto e vendita
(gennaio 2009 - ottobre 2017)
Ne discende che il surplus di abitazioni in costruzione sembra associato a fini speculativi dato che l’esigenza abitativa decresce, il prezzo degli affitti stagna, e quello delle vendite continua a crescere.
Avevamo visto, in un precedente articolo, come le due realtà dell’economia del Cile, la forte crescita da un lato e gli squilibri della bilancia dei pagamenti e della disuguaglianza dall’altro, fossero in realtà le due facce di una stessa medaglia. La bolla immobiliare è solo uno dei tanti sintomi di una malattia diffusa. Ora, alcuni mesi dopo, il malessere è evidente a tutti: l’inflazione e la crescita si sono quasi dimezzate, il deficit di bilancia dei pagamenti è sostanzialmente confermato, e allora la banca centrale abbassa drasticamente i tassi d’interesse. Così la crescita potrà riprendere ed il governo di Piñera, in difficoltà nei sondaggi, potrebbe mostrare qualche successo ai suoi elettori. Più soldi ad alimentare la bolla, con i già gravi problemi di debito privato.
Nel frattempo, però, aumentano le tariffe. Aumenta il prezzo della metro e dei bus (Transantiago); aumenti del 20% anche sulla bolletta dell’elettricità (ENEL). E allora, come da copione, lo stress si riversa dal piano economico a quello sociale. Durante tutta la terza settimana del mese di ottobre, ci sono massicce proteste, cancelli sfondati da gruppi di passeggeri per non pagare la metropolitana. Venerdì 18 ottobre mezza Santiago è scesa a protestare: Cacerolazos (caratteristiche proteste con rumore di pentole) e barricate dappertutto.
Nella notte, il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza. Ciò significa militari per strada, e restrizioni alla libertà di movimento e di riunione. Le TV di regime dedicano la loro attenzione esclusivamente ai pochi, inevitabili e fisiologici episodi di vandalismo. Ignorando i temi di fondo che hanno scatenato la protesta.
La verità di Piñera e dei suoi servi, è che tutto va bene e che bisogna ripristinare l’ordine. Il popolo cileno, però, non sembra pensarla affatto così. Dopo l’annuncio, le proteste si intensificano e così Piñera annuncia un decreto per “bloccare futuri aumenti”. Troppo poco e troppo tardi.
La gente è tanta, e le rivendicazioni sociali pure. E, nonostante molti osservatori notino che l’uso della mano dura non faccia altro che buttare benzina sul fuoco delle proteste, il generale dell’esercito dichiara addirittura il coprifuoco.
In Cile, il vizietto proprio non lo perdono. Il governo e l’esercito vogliono riportare indietro l’orologio della storia a trent’anni fa. Ma il popolo cileno non ci sta, e continua a far suonare le sue pentole, a cantare, a ballare, ad esporre manifesti, a protestare. Fino a pochi minuti dall’inizio del coprifuoco, la società civile, famiglie, bambini, sono ancora in piazza. Poi viene il coprifuoco. È il primo, dai tempi della cosiddetta “democrazia”. Già, democrazia, un teatrino che viene sospeso non appena il popolo comincia a farsi sentire, o “vota in modo sbagliato”. Silenzio spettrale, ancora proteste, ancora repressione.
Domenica 20 ottobre. Verso mezzogiorno si sentono i primi rintocchi di pentole, tutta Santiago è di nuovo in strada a protestare. Un’altra giornata di lotte, un altro coprifuoco annunciato. Questa volta alle 19:00 in un Cile primaverile, quindi di giorno. La gente continua ad ammassarsi nelle strade e a fare più rumore. Quando scatta il coprifuoco, il sole splende e le piazze sono ancora in festa. Più tardi, a poco a poco, la folla comincia a diradarsi.
Coprifuoco, di nuovo. Fino alle 6 di mattina. Si sentono spari, in lontananza. La città disubbidisce al coprifuoco. I quartieri più a rischio di saccheggi, atti vandalici ecc. rimangono scoperti da militari e carabinieri, impegnati nella pagliacciata di una repressione d'altri tempi, che, invece di fare presenza dove servono, vanno a reprimere – a volte brutalmente – manifestanti pacifici. E i “vecinos”, gli abitanti dei quartieri a rischio o “poblaciones”, lasciati ancora una volta soli da un non-Stato, iniziano organizzare la propria sicurezza, mettendo in atto ronde di quartiere auto organizzate. È la strategia preferita dei governanti: quella del caos, da cui dovrebbe rinascere un “nuovo ordine”.
Mercoledì, dopo 5 giorni di proteste e 4 di coprifuoco è indetto lo sciopero generale. Io – mentre butto giù queste ultime righe – coltivo la speranza che la lotta continui fino a quando ci sia un vero cambiamento di modello. O, almeno, fino a far tremare un po’ il sistema.
E chissà che ciò non serva da ispirazione anche da noi, in Italia…