Bene la vittoria al referendum e la caduta del governo Renzi, meno bene l’appiattirsi dei comunisti sulle posizioni dei sinceri democratici. Per quanto resti indispensabile la costruzione di un blocco sociale fra lavoratori salariati e ceti medi, l’avanguardia del proletariato urbano deve riconquistarne l’egemonia.
La netta sconfitta del governo liberal-populista capeggiato da Renzi e la momentanea battuta di arresto del tentativo di proseguire nello smantellamento dei valori democratici della Costituzione offrono la possibilità ai lavoratori salariati di riprendere fiato e riorganizzarsi in funzione della lotta per il socialismo. Il forte e generoso impegno della maggioranza dei comunisti nella battaglia referendaria, divenuta nei fatti la battaglia alle (contro)riforme realizzate dal governo Renzi, ha indubbiamente consentito di riconquistare credibilità fra le masse popolari e riprendere ad accumulare le forze. D’altra parte al grande impegno profuso per la salvaguardia di un sistema politico più favorevole alla lotta per il socialismo, non ha corrisposto un eguale successo nella lotta per l’egemonia dei comunisti nei confronti dei sinceri democratici, ovvero dei rappresentanti degli interessi dei settori progressisti della piccola e media borghesia. Tale risultato meno confortante è in buona parte causato dalla soggezione dei comunisti rispetto all’ideologia dominante in questa fase di restaurazione in cui il concetto stesso di comunismo viene immediatamente bollato con il marchio di infamia del totalitarismo. Così, invece, di utilizzare la campagna referendaria contro il governo Renzi come uno strumento per rilanciare la lotta di classe dal basso e rilanciare la prospettiva comunista, in troppi casi si è finito per accodarsi alle istanze e alle parole d’ordine dei sinceri democratici.
Tale attitudine “codista”, tale complesso di inferiorità nei riguardi delle concezioni democratico borghesi, tale senso di colpa per i gravi errori che ha favorito l’epocale sconfitta nella guerra fredda, hanno portato troppi comunisti a obliare o a porre troppo in secondo piano la necessaria funzione pedagogica delle avanguardie nei confronti delle masse popolari prive di coscienza di classe. Ciò rischia di produrre in queste ultime una rinnovata fiducia nella sostanzialmente illusoria possibilità di migliorare la propria condizione di oppressione e subalternità attraverso le istituzioni dello Stato borghese, necessariamente funzionali al dominio di classe dei ceti sociali possidenti. Tali illusioni finiscono per favorire il principio liberale della delega, piuttosto che il principio realmente democratico dell’esercizio del potere popolare.
Inoltre la concentrazione di gran parte delle forze di troppi comunisti nella battaglia referendaria, ha fatto perdere di vista l’esigenza indispensabile di rilanciare la lotta di classe dal basso, a partire dai bisogni reali delle classi subalterne. In tal modo si è finito, certo inconsapevolmente, per fare il gioco della dirigenza riformista del sindacato, dei rappresentanti dell’aristocrazia operaia, nel rispondere alla richiesta delle masse di reagire al deciso peggioramento delle loro condizioni di vita – prodotto dalle controriforme liberal-populiste del governo Renzi – sostenendo che non era il momento di pensare a scioperi, in quanto il sindacato era impegnato nella decisiva lotta referendaria. Così i comunisti non sono stati in grado né di contrastare, né di denunciare efficacemente lo scellerato patto che ha portato ampi settori della dirigenza burocratica del sindacato a barattare il mancato impegno nella lotta contro il governo, anche dal punto di vista della stessa battaglia referendaria, in cambio del ritorno alla logica concertativa, in realtà capitolarda, che ha condotto al pessimo contratto dei metalmeccanici e all’ancora peggiore intesa in vista del contratto del pubblico impiego. Si è così, involontariamente, lasciato libero il campo d’azione alle burocrazie sindacali che hanno sottoscritto, senza non solo mobilitare, ma nemmeno informare i lavoratori, delle pessime intese contrattuali, peraltro a pochissimi giorni dal referendum, vanificando completamente i timidi sforzi fatti in precedenza a sostegno del No. In tal modo si è in buona parte compromessa la possibilità, che si aprirà con la prossima caduta del governo Renzi, di rilanciare la lotta di classe e ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro per le classi subalterne.
Così, se la vittoria del No alla (contro)riforma della Costituzione ha segnato una indispensabile riaffermazione della sovranità popolare, nei confronti di un ceto di politicanti di professione al servizio dei poteri forti, rischia al contempo di rilanciare l’illusione che lo strumento referendario, generalmente strumento del populismo bonapartista, possa divenire un succedaneo della democrazia diretta, ovvero del potere popolare.
Tanto più pericolosa appare la tendenza, in ampi strati del centrodestra comunista, duramente provato da anni di mancata lotta al revisionismo, di rilanciare la parola d’ordine interclassista dell’unificazione della sinistra in nome della difesa della Costituzione. Tale prospettiva è la migliore dimostrazione di come tali settori comunisti sono sostanzialmente egemonizzati dalle illusioni della piccola e media borghesia progressista, che scambia il mezzo – ovvero la salvaguardia delle condizioni liberal-democratiche che rendono meno ostica la lotta per il socialismo – con il fine, ossia il rilancio della prospettiva comunista, di cui si ha oggettivamente sempre più bisogno a causa della crescente crisi economica e morale della società borghese.
Questa istintiva coazione a ripetere la prospettiva dell’unificazione della sinistra a difesa della Costituzione lascia quanto meno perplessi considerata, se non altro, la pesante torsione in senso liberista della Costituzione, passata attraverso le leggi elettorali antidemocratiche, la (contro)riforma del Titolo V e, last but not least, il vergognoso inserimento in essa del pareggio di bilancio, che stravolge la carta costituzionale e constrasta ogni tentativo di contrastare le politiche neoliberiste degli ultimi anni. Una norma di tal fatta rende, infatti, anticostituzionali persino le politiche riformiste di stampo keynesiano. Senza contare che l’unità per la difesa della Costituzione pone del tutto in secondo piano gli accordi ultra-liberisti, posti a fondamento dell’Unione europea, fino allo scellerato Fiscal compact, che sovradeterminano i valori progressisti della Costituzione, con il rischio di rendere del tutto utopistici i suoi aspetti più avanzati dal punto di vista economico e sociale.
Senza contare che la parola d’ordine interclassista di unificare i comitati per il No dietro la bandiera sempre più sbiadita della difesa della Costituzione costituisce un ulteriore implicito diniego della necessaria funzione pedagogica dei comunisti che, in quanto avanguardia del proletariato dovrebbero innanzitutto operare in funzione dello sviluppo della coscienza e della lotta di classe. Fare della difesa della Costituzione l’obiettivo dell’unificazione della sinistra significa in primo luogo contribuire, involontariamente, all’oblio del fatto che essa è il prodotto di un compromesso fra classi sociali in lotta fra loro. Anzi è il prodotto di una durissima fase del conflitto di classe segnata dalla lotta partigiana, necessariamente anche armata, contro le forze nazi-fasciste. Sono, dunque, tali avanzati rapporti di forza – conquistati sull’onda della dura lotta che ha portato i comunisti a essere i maggiori artefici della sconfitta del nazifascismo – a produrre gli aspetti più progressivi della Costituzione.
D’altra parte la Costituzione è anche il frutto di un compromesso dinanzi alla necessità, avvertita dalla maggioranza dei comunisti quanto meno in Italia, di non favorire in nessun modo – in quella fase di grande spossatezza del campo comunista, che si era accollato il peso principale della lotta al nazifascismo – l’inizio di una nuova guerra mondiale per cui spingevano le forze imperialiste angloamericane. Così, per non mettere in discussione gli accordi di Yalta e per evitare una sconfitta in una guerra civile – in cui le truppe di occupazione anglo-americane sarebbero certamente intervenute a favore del partito dell’ordine, mentre l’Urss come in Grecia non sarebbe potuta intervenire – si scelse la strada di un compromesso, per quanto onorevole, con democristiani e liberali.
Infine se tale compromesso era divenuto possibile grazie ai favorevoli rapporti di forza costruiti sulla base della dura lotta partigiana, che oltre a una guerra di liberazione nazionale è stata anche una guerra civile e di classe, la sua attuazione ha necessariamente da subito risentito del mutare di tale equilibrio. Il progressivo abbandono della prospettiva rivoluzionaria ha significato la mancata realizzazione della prospettiva riformista iscritta nel compromesso costituzionale. Così fino al progressivo recupero di tale prospettiva, con le lotte degli anni sessanta, tutte le parti più avanzate della Costituzione sono rimaste lettera morta, compresa la stessa attuazione delle regioni. In ultimo il progressivo dileguare della prospettiva rivoluzionaria ha prodotto la reazione liberista che, non paga della mancata attuazione della più avanzata parte economica e sociale della Costituzione, ne ha messo progressivamente in discussione la stessa struttura democratica.
Dunque, come le riforme non sono altro che delle vittorie parziali e delle concessione del nemico di classe, sulla strada della Rivoluzione, la difesa di quanto di democratico resta della Costituzione e la sua reale attuazione passa, inevitabilmente, attraverso una forte ripresa della lotta di classe dal basso. Tanto più che, in caso contrario, essa sarà portata ancora più avanti, in modo unilaterale dall’alto, mettendo sempre più in discussione, in un’ottica liberista e bonapartista, il compromesso costituzionale. Del resto, mai come questa volta, il voto è stato classista, il No è caratterizzato socialmente e geograficamente, è il No degli umiliati e offesi, è il No della questione meridionale, è il No dei giovani precari. Tale rabbia popolare e giovanile non è certo intercettabile e tanto meno organizzabile con la parola d’ordine della difesa della Costituzione.