“Ciao tesoro, ci vediamo questa sera”. Poi si esce per andare al lavoro. Verso un cantiere, una fabbrica, su un furgone per consegnare pacchi o in bici per consegnare un pasto caldo. “Ciao tesoro, ci vediamo questa sera”. Un saluto normale, quotidiano, quasi scontato. Come scontato dovrebbe essere tornare a casa dal lavoro. E invece no. Perché è più probabile morire da lavoratori in Italia che da soldato italiano in missione all’estero.
“Ciao tesoro, ci vediamo questa sera”. È forse il saluto che Lorenzo ha fatto alla fidanzata; che Nunzio ha pronunciato alla moglie. Ma Lorenzo e Nunzio a casa non sono più tornati, morti nell’esplosione di un serbatoio nel porto Livorno mentre lavoravano. E prima di loro non sono tornati a casa più 140 lavoratori dall’inizio di quest’anno; e prima ancora oltre 1.000 hanno lasciato il luogo di lavoro da dentro una bara, lo scorso anno; e più di 1.000 l’anno precedente e l’anno prima ancora. 13.000 negli ultimi dieci anni. Sono i numeri della mattanza dei luoghi di lavoro.
In casi come quelli al porto di Livorno, o alla Lamina Milano, o alla Thyssenkrupp di Torino, non si fanno mai attendere i pigri attestati di cordoglio istituzionali; qualche richiamo già sentito al rispetto della sicurezza sul lavoro. Ma mai che si sollevi un monito contro la smania di profitto, l'accelerazione dei ritmi di lavoro, la produttività d'impresa come unica variabile indipendente nei rapporti di lavoro. Niente su precarietà, ricatto occupazionale, impoverimento.
Centoundici anni fa Jack London, facendo parlare Ernest nel suo straordinario romanzo, Il tallone di ferro, descriveva con crudo realismo un grave infortunio sul lavoro: “Quell'uomo si chiama Jackson [...] Ha perduto il braccio nella filanda Sierra, e voi l'avete gettato sul lastrico a morire come un cavallo mutilato. Dicendo voi, intendo il direttore e le altre persone impiegate da voi e gli altri azionisti che dirigono per voi le filande. Fu una disgrazia, dovuta allo zelo di quell'operaio per far risparmiare qualche dollaro all'azienda. Il braccio gli venne preso dal cilindro dentato della cardatrice. [...] Era notte: nella filanda si facevano turni straordinari di lavoro. In quel trimestre fu pagato un forte dividendo. Quella notte Jackson lavorava da molte ore e i suoi muscoli avevano perduto la solita vivacità: per questo venne afferrato dalla macchina. Ha moglie e tre bambini”.
Centoundici anni dopo, si nascondono ancora le cause profonde dei troppi infortuni sul lavoro, delle inaccettabili morti sul lavoro: la spasmodica riduzione dei costi di produzione, la priorità assoluta del profitto rispetto ad ogni altra cosa. Mentre si sprecano i richiami troppo facili a porre termine alle morti bianche. Così vengono chiamate quando non si vuole indagare sulle cause di una strage quotidiana, inarrestata e inarrestabile se la vita umana diventa variabile dipendente dal profitto. Morte bianca, come se fosse una morte innocente. Morte bianca, per evitare di raccontare la fatica del lavoro, l’ansia di una condizione di precarietà, la paura della povertà, l’umiliazione del lavoro sottopagato, la rabbia della costrizione ad un lavoro senza diritti, la voglia di riscatto di un operaio, lo stato di necessità della stragrande maggioranza di chi ogni giorno deve vendere muscoli e nervi e cervello al mercato del lavoro. Morte bianca per non raccontare la vita di un operaio. Morte bianca è la definizione che dà alla morte sul lavoro chi non si schiera e che non schierandosi sta con il più forte in questa lotta di classe della quale non si ricordano padroni morti sul lavoro per la sete di profitto, produttività, accumulazione dei lavoratori. Morte bianca è la definizione che serve a non indagare le cause di quelle morti; a non cercare i colpevoli; a dare il senso dell’ineluttabilità di quelle tragedie che di ineluttabile non hanno niente.
Così che poi, prima ancora di leggere i titoli dei giornali del giorno dopo, si può sempre tornare a scandire il solito ritmo: produci, consuma, crepa. Produci, consuma, crepa. Produci, consuma, crepa...