Presumibilmente il principale tratto distintivo del nuovo governo consiste nell’aver sdoganato a livello politico la xenofobia. Del resto quest’ultima era stata già ampiamente sdoganata dai principali mezzi di comunicazione, espressione dell’ideologia dominante, ovvero dell’ideologia della classe dominante. Tale ideologia affonda le proprie radici sul piano delle strutture economico-sociali. I mezzi di comunicazione di massa da anni danno enorme risalto a ogni delitto presuntivamente commesso da un immigrato povero, mentre non si dà nessun risalto alla nazionalità o all’etnicità di delitti non compiuti da proletari stranieri. Ciò è funzionale da una parte alla criminalizzazione della povertà, dall’altra al contrasto alla parola d’ordine con cui, non a caso, si chiude il Manifesto del partito comunista: “proletari di ogni paese [del mondo], unitevi!”.
Che questo atteggiamento sia funzionale alla criminalizzazione della povertà è dimostrato dal fatto che l’odio per gli stranieri si rivolge essenzialmente agli stranieri poveri. Anzi gli stranieri ricchi dei paesi occidentali godono generalmente di tutta una serie di privilegi superiori a quelli di un italiano medio, si pensi ai processi che li hanno coinvolti o, più semplicemente, alla precedenza di cui godono nei Pronto soccorso. Che sia funzionale alla salvaguardia del modo di produzione capitalistico dinanzi all’unico modo di produzione in grado di superarne le contraddizioni oggettive, ossia il modo di produzione socialista e comunista, lo mostra il fatto che la propaganda xenofoba è essenzialmente finalizzata a impedire l’elaborazione della coscienza di classe da parte del proletariato.
In effetti, sebbene sia ormai divenuto senso comune il fatto che il capitalismo non abbia modo di superare le proprie contraddizioni intrinseche, al punto che i mezzi di comunicazione di massa arrivano a sostenere che una crescita ottimale sarebbe quantificabile al 2% del Pil, dimenticando di aggiungere che sarebbe ottimale unicamente per i paesi a capitalismo avanzato perennemente in crisi da sovrapproduzione. Tuttavia tale più o meno conscia consapevolezza non si traduce nel rafforzamento di chi si batte per un superamento in senso progressivo del capitalismo, ovvero in senso socialista, in quanto tale superamento viene considerato utopistico quando non direttamente distopico.
D’altra parte tale prospettiva non potrà che apparire distopica sino a quando le forze progressiste continueranno a dare, nella grande maggioranza dei casi, man forte all’ideologia dominante costantemente tesa a criminalizzare ogni forma di transizione al socialismo. Mentre l’ancora più insidiosa accusa di utopismo contrapposta a ogni prospettiva di superamento del capitalismo in un modo di produzione più razionale potrà essere nei fatti superata solo quando il proletariato avrà riacquisito – in primo luogo nei paesi a capitalismo avanzato in cui sussistono le condizioni oggettive per la realizzazione di una società socialista – una qualche coscienza di classe. Quest’ultima consiste nella consapevolezza di vivere la stessa condizione di sfruttamento e subordinazione degli altri proletari, tutti accomunati – al di là di ogni differenza nazionale, di genere o di gusti sessuali – dalla necessità di dover alienare come merce la propria forza-lavoro per potersi riprodurre come classe. Tale alienazione favorisce il progressivo arricchimento dei possessori monopolistici dei mezzi di produzione e di riproduzione del proletariato costituendone l’unico effettivo e comune nemico da combattere, anche in questo caso a prescindere dalle differenze nazionali, di genere o di oggetto del desiderio sessuale.
Del resto, proprio in quanto proprietari monopolistici dei mezzi di produzione e riproduzione i capitalisti sono necessariamente pochi, mentre coloro che sono costretti ad alienare la propria forza-lavoro sono di necessità molti. Inoltre è evidente, sulla base della semplice legge della domanda e dell’offerta che i capitalisti, per massimizzare lo sfruttamento della forza lavoro debbono avere dinanzi a sé un numero sovrabbondante di individui necessitati ad alienarla in tempi rapidi, per potersi riprodurre. Al contempo però i capitalisti, per poter preservare i propri privilegi, sempre più irrazionali, debbono mantenere il crescente proletariato diviso, disomogeneo e conflittuale al proprio interno. Il potere del capitalista si fonda in effetti, come ogni potere, sul monopolio della violenza legalizzata e sulla capacità di egemonia, ossia di dominare con il consenso dei dominati. Per mantenere tale potere deve tenere costantemente diviso il suo potenziale nemico di classe, facendo prevalere i contrasti al suo interno che fanno sì che una parte di esso, dimentico della propria natura sociale, veda nel padrone un potenziale alleato nella lotta che lo contrappone a un’altra componente del proletariato.
Proprio perciò la classe dominante e, di conseguenza, l’ideologia dominante debbono far di tutto per mantenere privi di coscienza di classe e, quindi, divisi i proletari. Da qui tutte le divisioni e contrapposizioni più o meno fittizie fra i lavoratori salariati, messi gli uni contro gli altri sulla base di presunte differenze razziali, di genere, di nazione, di gusti sessuali, di età, di religione, di mansione più o meno intellettuale o manuale e persino di quartiere o di squadra del cuore, arrivando a contrapporre gli occupati ai disoccupati o ai sottoccupati, ovvero i precari, e persino gli stessi comunisti. In tutti i casi si tratta di differenze indifferenti, di divisioni e contrapposizioni create e riprodotte costantemente ad arte dall’ideologia dominante per preservare i privilegi dei ceti dominanti a spese dei subalterni. Evidentemente è nel pieno interesse della classe dominante mantenere il più possibile vive queste divisioni e contrapposizioni in seno al popolo, mentre è interesse dei subalterni fare il possibile per superarle, dal momento che solo unendosi il proletariato di ciascun paese potrà emanciparsi dallo sfruttamento e dalla subalternità. È quindi evidente, al di là di tutte le illusioni di proletari privi di coscienza di classe, la natura profondamente classista dell’attuale governo e, dunque, il suo operare unilateralmente in funzione degli interessi della classe dominante fomentando in ogni modo la guerra fra poveri, sino a sdoganare i pregiudizi mitologici alla base del razzismo, ormai definitivamente svuotati di qualsiasi parvenza di scientificità.
Dunque la principale e fondamentale causa della emigrazione forzata, purtroppo incomparabilmente superiore e più tragica della migrazione volontaria, è proprio il modo di produzione capitalistico. Innanzitutto perché, espandendosi nelle campagne, costringe i piccoli proprietari agricoli, non potendo sostenere la sua concorrenza, ad alienare progressivamente i propri mezzi di produzione sino a proletarizzarsi andando a ingrossare l’esercito industriale di riserva nelle città. Questa, da quando si è affermato il modo di produzione capitalistico, resta la principale causa dell’emigrazione forzata di milioni di uomini ogni anno. In secondo luogo, quale causa della migrazione forzata, abbiamo il necessario sviluppo in senso imperialistico del capitalismo. La concorrenza rende necessaria la progressiva automazione della produzione, provocando la caduta tendenziale del tasso di profitto, dal momento che il plusvalore è prodotto dal pluslavoro, a sua volta prodotto unicamente dallo sfruttamento dell’uomo. Ne deriva, altrettanto necessariamente, la sovrapproduzione che porta i capitalisti, in primo luogo, a esportare in paesi non ancora sviluppatisi in senso capitalista i capitali sovrapprodotti. Ciò provoca innanzitutto il fallimento dei piccoli produttori locali, in secondo luogo favorisce il perverso meccanismo del debito, che porta i paesi e le classi povere a finanziare mediante interessi su un debito inestinguibile i paesi imperialisti e le classi dominanti. In terzo luogo la necessità di preservare i capitali esportati rispetto tanto dalle popolazioni locali quanto nei confronti degli interessi contrastanti di altre potenze imperialiste, porta altrettanto necessariamente a guerre, decisamente più economiche se combattute per interposta persona, magari contrapponendo su basi religiose, etniche, economiche, culturali e sociali la popolazione da sottomettere al dominio imperialista.
Tutto ciò provoca un surplus di emigrazione rispetto a quello “naturalmente” prodotto da cause economiche, dovute allo sviluppo in senso globale del modo di produzione capitalistico. Abbiamo, in quarto luogo, tra le cause fondamentali dell’emigrazione la progressiva devastazione dall’habitat naturale indispensabile alla riproduzione del genere umano. Nella società capitalista, in cui ogni agente economico, pressato dalla implacabile concorrenza, è costretto a mirare esclusivamente alla massimizzazione del profitto, si rompe necessariamente ogni forma di ricambio organico fra mondo storico antropizzato e ambiente naturale in cui necessariamente il primo è costretto a svilupparsi. Ciò provoca un crescente numero di emigrazioni forzate condizionate, in primis, proprio dalla progressiva devastazione dell’ambiente prodotto a livello globale dall’affermarsi su scala altrettanto internazionale del modo di produzione capitalistico.
Abbiamo, infine, come ultima causa fondamentale del processo di emigrazione forzata la necessità del capitalismo, per poter sopravvivere, di aumentare artatamente l’esercito industriale di riserva, accentuando al contempo la conflittualità fra i subalterni. Ecco così che da un lato il capitalismo provoca fenomeni di migrazione su scala mondiale, costringendo i più deboli e oppressi a emigrare. Al contempo è la stessa ideologia dominante, corrispondente all’ideologia della classe dominante, a criminalizzare la povertà, in primo luogo degli emigrati, per mantenere diviso il fronte dei subalterni e conquistarsi il sostegno, in funzione subalterna, dei ceti sociali intermedi, sebbene il capitalismo tenda a proletarizzarli. Questi ultimi, pur essendo progressivamente ridotti dallo sviluppo del capitalismo, giocano un ruolo decisivo sul piano politico e sociale, quale ago della bilancia nel conflitto necessario fra sfruttatori e sfruttati in un mondo che va progressivamente polarizzandosi.
In questa prospettiva, per mantenere l’egemonia sia sulle classi intermedie che tende a proletarizzare, sia sui ceti sociali subalterni, che tende a sfruttare in modo sempre più pervasivo, la classe dominante ha bisogno di qualsiasi forma ideologica volta a creare conflitti all’interno degli altri gruppi sociali. Ecco perché l’ideologia dominante – quando non è efficacemente contrastata dall’ideologia dei subalterni, in questa perpetua guerra di posizione che si combatte per conquistare casematte all’interno della società civile – tende a fomentare il razzismo, il nazionalismo, la xenofobia, il maschilismo, l’omofobia, le guerre di religione etc. Al contrario, dunque, i subalterni dovranno contrastare tali fenomeni vedendo nell’altro proletario non come vuole la classe dominante un possibile concorrente, ma un potenziale alleato indispensabile a sconfiggere quel modo di produzione capitalistico che costituisce la principale causa della migrazione forzata e delle guerre fra poveri e subalterni.