In una lunga intervista sulla concezione dello Stato ebraico [1], il grande storico israeliano I. Pappe ha così messo in evidenza la distorta ricezione che si è avuta nel mondo occidentale della nascita dello Stato di Israele nel 1948, in corrispondenza della Nakba, ovvero della catastrofe palestinese: “il discorso sionista è fondato su basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione”. A questo proposito, come ha osservato il giornalista esperto in questioni internazionali Alberto Negri: “l’operazione fondamentale è stata assorbire la Palestina all’interno della storia europea: dalla Dichiarazione di Balfour sul focolare ebraico, passando per il piano di partizione del 1947, fino alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme del 6 dicembre 2017, l’Europa e l’Occidente hanno incasellato la Palestina come una affare interno a Israele” [2].
Proprio perciò, ha osservato ancora Pappe, nel mondo occidentale “i palestinesi in quanto arabi e musulmani sono visti come migranti non come nativi” [3]. Ciò ha consentito, come ha giustamente osservato Vladimiro Giacché, un’inversione fra causa ed effetto, fra aggressore ed aggredito funzionale a far passare nell’opinione pubblica occidentale il pregiudizio che i Palestinesi, in qualche modo, se la siano cercata. Ciò risulta possibile in quanto è stato, in modo subliminale, implicitamente imposto il principio che “vi sono morti che pesano come una piuma e morti che pesano come una montagna” – come constatava amaramente Mao Tse Tung – per cui nel presunto conflitto fra palestinesi e israeliani il rapporto fra gli uccisi è di circa cento a uno, senza contare i feriti, i traumatizzati e i prigionieri il cui il rapporto è egualmente del tutto sproporzionato.
In tal modo i nativi – secondo la versione distorta ideologicamente dominante in occidente e dal momento che lo Stato ebraico pretende che la pace debba ridursi alla mera accettazione dello status quo, ovvero dell’occupazione della Palestina – non solo non potranno tornare nelle loro terre e abitazioni, ma non avrebbero neppure diritto a una storia, in quanto essa è sistematicamente negata dall’ideologia dominante. Il motivo di ciò è che tale storia, come ha documentato con dovizia di particolari lo storico Salim Tamari, docente a Harvard, non solo esiste, ma mette in questione la narrazione ideologica necessaria ai sionisti. Basti considerare, ha scritto Tamari, che “a fine ottocento, la Palestina, parte dell’Impero ottomano, (…) era composta per l’85% da palestinesi musulmani e per il 15% da palestinesi cristiani, ebrei e di altre confessioni religiose”.
Dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, in corrispondenza della Nakba palestinese, solo 150.000 nativi, il 15% della popolazione, rimase all’interno della Palestina. Generalmente la possibilità di rimanere fu più il frutto del caso, piuttosto che di un atto di eroismo. Un trattamento speciale ricevette, ad esempio, la città di Nazareth, cara ai cristiani e al Vaticano. Quando fu occupata ai militari sionisti fu ordinato di non essere violenti con la popolazione civile. Nella città vi erano moltissimi rifugiati dai villaggi vicini attaccati dai sionisti. Tuttavia, come spiega lo storico israeliano H. Cohen, “per la legge israeliana non potevano tornare ai loro villaggi e così divennero sfollati all’interno dello Stato di Israele” [4]. I villaggi sono stati demoliti, per farne sparire anche le tracce, e gli è stato dato un nuovo nome ebraico. I loro abitanti, rifugiatisi a Nazareth, pur essendo a pochissimi kilometri dai loro villaggi, sono stati condannati a non potervi fare ritorno. In taluni casi i sionisti consentirono agli abitanti di villaggi drusi o cristiani di rimanere, al solo scopo di aumentare la conflittualità all’interno della popolazione palestinese.
Vi è stata una Nakba anche per quanto riguarda gli archivi palestinesi, tanto più che questi ultimi non sono stati in grado di dotarsi di un corpo professionale incaricato della loro cura. Così anche importanti documenti sopravvissuti, comprovanti gli assetti proprietari prima della Nakba, non sono stati pubblicati. Perciò, sebbene ogni sopravvissuto della Nakba ha conservato la memoria della propria catastrofe familiare, non esiste una documentata memoria collettiva e, perciò, il popolo palestinese stesso non è in buona parte ancora oggi realmente consapevole della gravità e della portata storica della catastrofe che ha subito.
Nello Stato ebraico, invece, tutti i documenti concernenti la Nakba sono stati classificati come top secret. Cohen ha fatto notare, a questo riguardo, che: “secondo la legge Israeliana se i documenti e i materiali degli archivi sono in contrasto con l’interesse dello Stato non saranno resi pubblici. Ecco perché, se provi ad occuparti della questione palestinese, non avrai mai accesso ai file [che potrebbero documentarla]. Ho chiesto alcuni documenti all’archivio dello Stato israeliano riguardo allo status delle terre appartenenti ad alcuni rifugiati del 1948. Li ho chiesti dieci anni fa e mi hanno risposto che avrei potuto averli dopo dieci anni. Passati i quali, quando li ho nuovamente richiesti mi è stato risposto che potrò averli fra dieci anni”.
Israele, inoltre, ha elaborato almeno trenta diverse leggi concernenti la confisca delle terre dei palestinesi. Così, ad esempio, ai rifugiati interni prima veniva impedito di tornare nelle proprie terre per ragioni militari. Poi, dopo tre anni, le terre venivano sottratte sulla base di un’altra legge che ordinava la confisca di terreni abbandonati per, appunto, tre anni. Così diverse abitazioni confiscate ai palestinesi, a cui è stato impedito persino il diritto di rivederle, sono state in seguito assegnate a emigrati ebrei. Così milioni di palestinesi, oggi, non possono nemmeno rivedere i luoghi in cui sono nati o di cui sono originari.
Tanto più che ancora oggi più di cinque milioni di palestinesi sono costretti a vivere fuori dalla Palestina e non gli è nemmeno concesso di poter fare visita alle proprie case che sono stati costretti ad abbandonare. Allo stesso modo altri cinque milioni, che vivono all’interno della Palestina, sono soggetti a nuove ondate di sfratti sulla base dello stesso originario principio della pulizia etnica, minuziosamente documentato dallo storico israeliano Pappe. La Cisgiordania e la striscia di Gaza sono state separate e mentre la prima è a sua volta divisa, al proprio interno, da centinaio di check-point – dove i palestinesi sono obbligati ad aspettare per ore e a subire pesanti perquisizioni ideate per degradarli, parte di una guerra psicologica che mira a far comprendere ai palestinesi che non c’è dignità né sicurezza per loro, nella loro stessa terra – la seconda è stata ridotta a un’enorme prigione a cielo aperto.
D’altra parte, “la storia non è ancora finita” – ha osservato a ragione Pappe – “dobbiamo ancora vedere come andrà a finire. Le operazioni di pulizia etnica continuano, come continua la resistenza contro di esse”. Del resto ciò che è costruito sull’ingiustizia non può che rimanere, a propria volta, ingiusto, mentre la rivendicazione dei propri diritti non può essere delimitata, se non temporalmente. Come afferma un vecchio proverbio palestinese tutt’oggi attuale: “nessun diritto che qualcuno continuerà a rivendicare andrà mai realmente perduto”. È necessario, dunque, domandarsi che cosa stiamo facendo per evitare che un nuovo tragico capitolo della Nakba sia realizzato da coloro che passano, notte e giorno, a pianificare per realizzare un’ulteriore tappa di quella che Pappe ha denunciato, attraverso una ricchissima documentazione, la “pulizia etnica della Palestina” .
Anche perché, come ha osservato a ragione il grande storico Angelo D’orsi, se continueremo a eludere la questione con la fantomatica soluzione dei “due popoli per due Stati” continueremo, nei fatti, a tollerare e/o subire il drammatico status quo di uno Stato religioso imposto sulla terra di Palestina, che nei fatti esclude dalle loro terre una parte significativa dei nativi, che oggi, nel 50% dei casi sono ancora costretti a vivere da profughi o rifugiati all’estero. Tanto più che tale situazione, sebbene in fondo finisca per fargli comodo, non è stata mai davvero accettata da Israele ed è, ancora ai nostri giorni, in ogni modo boicottata dallo Stato ebraico. Del resto si tratta di una soluzione a tutti gli effetti impraticabile perché ogni astratta partizione su basi etniche e religiose non sanerà mai la conflittualità che si è generata proprio dalla prospettiva di creare uno Stato ebraico in Palestina. La tragedia palestinese deriva infatti, come sottolinea a ragione D’Orsi, dalla pretesa di imporre in Palestina “uno Stato etnicamente puro. Quando gli Stati etnici sono stati sempre forieri di conflitti, come insegna la Storia, ma, come ha osservato Gramsci: ‘gli uomini sono pessimi allievi’”. Evidentemente l’unica soluzione per chi aspira realmente a una pace reale e duratura non può che essere: uno Stato unico, laico e multietnico, che preveda, in primo luogo, le realizzazione della risoluzione delle Nazione unite, da anni inevasa, che impone il pieno diritto al ritorno nelle loro terre e nelle loro case di tutti i profughi.
Del resto nessuno può sopprimere le nazioni e il diritto dei popoli all’autodeterminazione e, se il mondo arabo si mobilitasse, i coloni sionisti non potrebbero continuare a occupare a lungo la quasi totalità della Palestina storica. Le cose cambierebbero radicalmente in modo decisamente più rapido se a mobilitarsi fossero tutte i popoli oppressi e, più in generale, i subalterni. Tanto più che la questione della liberazione della Palestina non riguarda solo tutti gli arabi, ma più in generale tutti gli oppressi, in quanto il bersaglio dell’imperialismo e del neocolonialismo sono non solo i palestinesi o gli arabi in generale, ma tutti i popoli oppressi.
Come ha osservato a questo proposito Alberto Negri: “il doppio standard legale e umanitario applicato ai palestinesi, la violazione che continua da decenni delle risoluzioni Onu, è al centro di ogni questione mediorientale, segna anche il destino degli altri arabi, dei curdi, degli iraniani. Di tutti noi, come cittadini del mondo […]. Il doppio standard si moltiplica con sanzioni ed embarghi, punendo in realtà non i regimi ma intere popolazioni. Tranne uno: Israele. Un’eccezione giustificazionista che si traduce nella formula del ‘diritto dello stato ebraico a difendersi’ e nel mantra irrinunciabile che ‘Israele è l’unica democrazia della regione’, l’unica perché alle altre possibili non viene lasciata neppure una chance di esistere come nazioni, Paesi, stati e neppure come cittadini con diritti primari, come la casa e la terra dove si è nati” [5].
Così, ancora ai nostri giorni, la progressiva occupazione della Palestina e l’esproprio dei suoi abitanti originari, ad opera di coloni provenienti da tutto il mondo, prosegue come in tutto il secolo passato e rischia di perpetuarsi nelle stesse tragiche modalità anche in futuro. Siamo, dunque, giunti a un crocevia dal punto di vista storico, o gli oppressi sentiranno come propria la causa della liberazione anche della Palestina dal colonialismo di derivazione europea o finiranno per accettare il nefasto status quo per cui non solo la Palestina è perduta, ma dopo di essa potrà essere la volta di altre parti del mondo arabo – come oggi la Siria – e più in generale dell’intero Terzo mondo. Allo stesso modo se i subalterni del mondo occidentale continueranno ad accettare supinamente il rilancio a livello internazionale dell’imperialismo e del colonialismo difficilmente potranno realmente liberarsi dal loro stato di oppressione e sfruttamento.
Note
[1] L’intervista è contenuta nell’interessante libro di M. Giorgio e C. Cruciati: Israele, mito e realtà. Il movimento sionista e la Nakba palestinese settant’anni dopo, Edizioni Alegre, Roma 2018.
[2] A. Negri, La narrazione tossica di Gaza, in “Il manifesto” del 29 maggio 2018.
[3] In M. Giorgio e C. Cruciati, op. cit.
[4] In Al Nakba, documentario prodotto da Al-Jazeera per il 60° anniversario della catastrofe palestinese.
[5] A. Negri, op. cit.