Il lancio, avvenuto la scorsa settimana, del sito internet e delle pagine sulle reti sociali di Aufstehen (letteralmente "alzarsi in piedi"), la nuova piattaforma politica della sinistra tedesca animata da Sahra Wagenknecht e Oskar Lafontaine, in pochi giorni non ha mancato di provocare le reazioni più disparate in seno alla sinistra continentale. Tra queste, si segnalano per la loro veemenza quelle direttamente o indirettamente provenienti dagli ambienti del partito della Sinistra Europea, che come noto riunisce alcune tra le principali forze di derivazione eurocomunista, post-comunista e della sinistra radicale e socialdemocratica attive nei diversi paesi dell'Unione Europea, tra i quali la Linke tedesca - partito d'appartenenza dei dirigenti protagonisti del lancio della nuova piattaforma - e Rifondazione Comunista.
Negli ambienti vicini alla SE, l'iniziativa di Wagenknecht e Lafontaine viene liquidata sbrigativamente come un'espressione della “tendenza alla frammentazione della sinistra”: una descrizione che non corrisponde a verità perché, come già esplicitato dai promotori, Aufstehen non vuole essere un nuovo partito, ma una piattaforma trasversale alle formazioni esistenti e aperta all'apporto di singoli e gruppi facenti parte tanto della SPD quanto dei Verdi. Nel delineare i caratteri del progetto, già alcune settimane fa la Wagenknecht ventilava il sostegno di parte di “ex alti dirigenti” e “membri della SPD”.
La conformazione organizzativa del nuovo soggetto ricalca evidentemente il carattere movimentista, il processo di costruzione “dall'alto” e la volontà di trascendere i partiti politici esistenti di quello che appare a tutti gli effetti come il modello ispiratore maturato sull'altra sponda del Reno: la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon. Superando politicamente il Front de Gauche senza per questo sciogliere il Parti de Gauche fondato dallo stesso Mélenchon al momento della sua fuoriuscita dal Partito Socialista, la FI ha saputo costituire il perno di un'operazione egemonica a sinistra che ha accelerato il crollo del PS e coronato il declino di un Partito Comunista Francese infine scavalcato a sinistra e costretto politicamente all'angolo al punto da rendersi autore, a poche settimane dalle presidenziali che dovevano incoronare Melenchon come leader della sinistra transalpina regalandogli quasi il 20% dei voti, di un grottesco appello rivolto a quest'ultimo perché si incontrasse con il candidato socialista Hamon per realizzare una convergenza elettorale, che di fatto evocava la possibilità del ritiro dalla competizione del primo in favore del secondo. In questa parabola è possibile rintracciare i punti salienti di un percorso che ora si vuol tentare di declinare nella realtà tedesca, facendo però i conti con la profonda diversità dei sistemi elettorali ed istituzionali dei due paesi.
Le radici della mossa di Wagenknecht e Lafontaine possono essere ricondotte al momento decisivo rappresentato dalle elezioni federali dello scorso anno. Come da tradizione, a capo delle liste del partito della sinistra vennero indicati allora due figure: un uomo e una donna, sostanzialmente uno espressione dell'apparato dell'ex PDS tedesco-orientale, erede diretta di quella SED che fu il partito guida della Repubblica Democratica Tedesca, e l'altra in rappresentanza del gruppo di Lafontaine che, fuoriuscito dalla SPD e unitosi alla PDS nella fondazione della Linke, ne determinò le relative - ma significative in termini di voti assoluti e decisive per la proiezione nazionale del nuovo partito - fortune nell'ex Germania occidentale. A rappresentare il ceppo ex PDS per le elezioni del 2017 fu scelto l'anonimo Dietmar Bartsch, mentre a rappresentare gli ex socialdemocratici dell'ovest, malgrado la sua provenienza dall'est e dalla stessa PDS, fu designata Sahra Wagenknecht. La fortuna mediatica della candidatura di quest'ultima, capace di monopolizzare in modo sostanziale l'immagine della Linke nel corso della campagna elettorale, fece detonare le tensioni tra il gruppo Wagenknecht-Lafontaine e la vecchia dirigenza ex PDS essenzialmente identificata nella figura di Gregor Gysi, provocando una vistosa divisione in piena campagna elettorale, segnata da un vero e proprio attacco denigratorio condotto in primo luogo dal quotidiano Neues Deutschland, ex organo della SED e vicino a Gysi, contro la figura della Wagenknecht, di fatto accusata di razzismo per le sue posizioni favorevoli al controllo dei flussi migratori.
I risultati delle elezioni rafforzavano il gruppo Wagenknecht-Lafontaine: anche se veniva confermato il divario tra le alte percentuali ottenute nell'ex DDR e quelle, più modeste ma comunque rilevanti, riscosse nella Germania occidentale, la Linke registrava una significativa flessione nei Lander orientali che veniva quantitativamente compensata e superata dall'aumento dei consensi in quelli occidentali, ciò che permetteva al partito di migliorare, seppure di pochi decimali, il risultato su scala nazionale rispetto a quello ottenuto nelle precedenti elezioni. La geografia interna della Linke si caratterizzava così per una sproporzione tra il radicamento organizzato, superiore all'est e saldamente controllato dal gruppo dirigente ex PDS, e la crescente rilevanza quantitativa del consenso ottenuto a ovest, incarnato dall'attraente profilo mediatico della Wagenknecht. Una divaricazione che il successivo congresso della Linke, tenutosi la primavera scorsa, non poteva che confermare.
Gli elementi fin qui esposti devono essere collocati in un contesto di ulteriore complessità: quello rappresentato dalla decadenza accelerata del partito della Sinistra Europea, il cui presidente è proprio Gregor Gysi. Si può dire che la SE rappresenti sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 2004 sotto la direzione del PRC di Bertinotti supportata proprio dalla PDS e dal PCF, il tentativo di un gruppo di soggetti di matrice eurocomunista o post-comunista di occupare lo spazio politico classico della socialdemocrazia, abbandonato dai soggetti aderenti al Partito del Socialismo Europeo, dandosi un profilo movimentista a livello di propaganda, accettando in pieno la dogmatica europeista declinata secondo i canoni della “riformabilità dall'interno della UE” (il cosiddetto "altreuropeismo") e del superamento della questione nazionale e sposando un keynesismo dalle tinte radicaleggianti quanto a ricette economiche. Il passaggio decisivo di questo slittamento a destra della SE sarebbe stato rappresentato dall'avvento della Syriza di Alexis Tsipras alla guida della Grecia, che ha fornito a questo “riformismo post-comunista” un suo primo, fallimentare banco di prova di governo, anticipato dalla candidatura dello stesso Tsipras alla presidenza della Commissione Europea in occasione delle elezioni del 2014.
Con la decadenza della socialdemocrazia europea in seguito all'esplosione della crisi economica nel 2008, la SE ha visto entrare nella sua orbita o integrarsi nei suoi ranghi forze nuove: la Podemos di Pablo Iglesias - inizialmente artefice di un asse con Syriza ormai di fatto decaduto - e il Parti de Gauche di Mélenchon. Era solo questione di tempo perché i neo-socialdemocratici “di lunga tradizione”, di cui Mélenchon è capofila, lanciassero la loro sfida alle burocrazie eurocomuniste e post-comuniste in crisi d'identità per l'egemonia sulla sinistra continentale. Un processo che il crollo del PRC in Italia e la messa all'angolo del PCF in Francia non potevano che accelerare. Conseguentemente, nei mesi scorsi il leader della France Insoumise lanciava il suo guanto di sfida in seno alla SE attaccandone frontalmente proprio quell'unica, fallimentare esperienza di governo: la richiesta, respinta, di espellere dalle fila della formazione europea Syriza, rea di aver imposto politiche d'austerità al popolo greco, e la firma del documento di Lisbona che ha riunito in un blocco elettorale per le europee 2019 la France Insoumise, un Podemos le cui fortune in Spagna sono in costante declino ma ancora accreditato di un consenso a doppia cifra, e un Bloco de Esquerda portoghese stabile intorno al 10% nelle intenzioni di voto, hanno scandito i due momenti decisivi di una scalata di cui la fuoriuscita del Parti de Gauche dalla Sinistra Europea è stato il logico passaggio successivo.
In questo quadro, il più forte baluardo dello stato di cose presente nella SE e il più autorevole alleato di uno Tsipras sempre più in difficoltà rimane proprio la Linke sotto controllo burocratico da parte del gruppo dirigente facente capo a Gysi, coerentemente eletto nel 2016 alla presidenza del partito europeo. Vale la pena di sottolineare come, sin dal 2004, la presidenza della SE sia stata monopolizzata da Linke, PRC e PCF.
È in questo contesto che va letta l'iniziativa di Wagenknecht e Lafontaine e che si spiega l'aperta ostilità che essa ha destato negli ambienti della SE: se Aufstehen avesse successo, il gruppo facente capo a Gysi verrebbe soppiantato e ridotto all'irrilevanza sul piano nazionale, perdendo dunque l'influenza necessaria a garantire la coesione della SE e il principale appoggio internazionale a Syriza, con la conseguenza di un probabile, accelerato collasso dell'area eurocomunista e post-comunista e dell'emersione definitiva dei nuovi gruppi di provenienza socialdemocratica alla guida della sinistra su scala continentale. L'isolamento di Syriza, o la sua ricerca di un sostegno in seno alla socialdemocrazia liberale tradizionale, sarebbero a quel punto assai probabili.
Ciò chiarito, restano da porsi le domande più rilevanti rispetto ai caratteri e alle finalità di Aufstehen. In primo luogo: può il nuovo progetto rappresentare un elemento dinamizzatore nella politica tedesca? Se si analizza il ruolo giocato dalla PDS prima, dalla Linke poi, si deve convenire che esso sia stato essenzialmente di stabilizzazione. Dopo aver guidato la liquidazione del socialismo tedesco-orientale passando attraverso la fase freudiana dell'assassinio del “padre” Honecker e del cambiamento del nome da SED in PDS, l'ex partito-guida della DDR è stato protagonista dell'integrazione dei Lander orientali nello Stato federale. Non a caso, l'istituzione della Treuhand, l'ente creato per guidare la ristrutturazione di mercato e la privatizzazione dell'apparato economico e industriale della DDR, venne preparata dall'ultimo governo SED-PDS, quello guidato dallo stesso Hans Modrow a lungo presidente onorario della Linke e tuttora tra i “padri nobili” del gruppo facente capo a Gysi, per poi essere varata dal cristianodemocratico de Maizière (di cui Angela Merkel fu portavoce). Furono necessari i misteriosi omicidi di Alfred Herrhausen, presidente della Deutsche Bank, e di Detlev Rohwedder, chiamato a dirigere la stessa Treuhand, perché la feroce e tumultuosa epoca dell'annessione dell'ex DDR e delle privatizzazioni producesse il vero e proprio disastro sociale che trasformò in pochi mesi l'est in un'area essenzialmente deindustializzata ed economicamente depressa, creando le premesse sociali per la sopravvivenza della PDS negli anni '90 e per le sue perduranti fortune elettorali nelle regioni dell'ex Germania socialista. Fortune elettorali, quelle della PDS, a cui hanno fatto riscontro la costante negazione di qualsiasi orizzonte di conflitto sociale e una marcata tendenza al compromesso con la SPD più liberale, che spianerà la via al partito di Gysi prima, alla Linke poi, per l'accesso ad assai poco gloriose esperienze di governo negli enti locali. Contemporaneamente, calava sulla PDS prima, sulla Linke poi, una conventio ad excludendum che, accompagnata dallo status di partito sotto osservazione da parte dei servizi segreti, avrebbe trasformato la sinistra radicale tedesca in un vero e proprio ghetto politico escluso per principio dalle stanze del governo.
Per completare la descrizione del contesto in cui si colloca il lancio della piattaforma guidata da Sahra Wagenknecht, occorre a questo punto richiamare alcuni elementi su come si siano evoluti i rapporti di potere in Germania nell'ultimo ventennio, in relazione anche all'evolversi del modello economico che ha reso possibile l'emersione del paese come potenza geo-economica egemone nel quadro europeo.
Come noto, tra il 1998 e il 2005 si consumò a Berlino l'ultima esperienza di governo a guida socialdemocratica, incarnata dalla figura di Gerhard Schröder. Una stagione all'insegna della “terza via” che spopolava allora tra le socialdemocrazie europee (compreso l'ulivismo nostrano), liberista sul piano sociale ma assai attenta allo sviluppo dell'economia produttiva e delle esportazioni, con una visione strategicamente rivolta all'integrazione economica con la Russia in cui il rapporto personale e politico tra il cancelliere e Vladimir Putin finirà per riprodurre il clima della cosiddetta “amicizia strategica da sauna” che aveva già unito Helmut Kohl e Boris Eltsin. Non per nulla, alla conclusione del suo mandato Schröder accetterà la nomina, sostenuta dal colosso russo dell'energia Gazprom, alla guida del consorzio multinazionale Nord Stream AG per la costruzione del gasdotto destinato a portare il gas russo direttamente in Germania, passando per il Baltico. Schröder è infine approdato nel settembre scorso, in piena campagna elettorale tedesca, alla guida del consiglio d'amministrazione di Rosneft, l'altro colosso russo dell'energia, nominato da Putin in persona, dando luogo a non poche polemiche.
La strategia di proiezione a est è stata successivamente confermata, seppure con qualche ambiguità, da tutti i governi guidati da Angela Merkel, fino a balzare agli onori della cronaca nelle scorse settimane per le manifestazioni pubbliche di ostilità esternate a riguardo da Donald Trump. Occorre osservare, ai fini della nostra riflessione, come proprio Sahra Wagenknecht sia stata, da sinistra, una delle voci più forti a sostegno del carattere strategico del partenariato con la Russia, in particolare nella fase dell'allineamento sostanziale della Germania agli Stati Uniti sulla questione ucraina, da lei duramente attaccato.
Sul fronte delle relazioni politiche interne, dall'avvento di Angela Merkel alla cancelleria la Germania è entrata in una fase di stasi politica plasticamente rappresentata dal ripetersi della formula della Große Koalition tra cristianodemocratici (CDU), cristianosociali (CSU) e socialdemocratici (SPD), da ultimo confermata dopo le lunghe trattative seguite alle elezioni dello scorso autunno. Questa perdurante alleanza su posizioni di minoranza, sostenuta dalla SPD al fianco di quello che nello schema bipolare tradizionale rappresenterebbe il suo principale concorrente, ha reso evidente la coincidenza di obiettivi strategici tra la SPD e la CDU, annullando la capacità della socialdemocrazia di proporsi come alternativa di governo e determinando i ben noti rovesci elettorali da questa sofferti nell'ultimo decennio, con la conseguenza di una forte frustrazione da parte della base, dell'elettorato, ma anche del quadro dirigente socialdemocratico. Contemporaneamente, il tenore della campagna elettorale condotta con particolare energia da Sahra Wagenknecht, tesa a denunciare le commistioni tra i partiti “tradizionali” e il mondo degli affari (denuncia fortemente centrata sul caso Shröder-Rosneft, assunto come paradigma del problema), tendeva a candidarsi a raccogliere l'eredità della socialdemocrazia di Brandt e a guidare la battaglia per una politica libera dai condizionamenti delle lobby finanziarie e dei donatori eccellenti, al servizio di un rilancio su vasta scala dello stato sociale capace di rispondere al disagio crescente di vaste fasce di popolazione colpite dalla crisi.
Il lancio di Aufstehen appare dunque orientato a inserirsi in questa direttrice d'azione, con la finalità evidente di marginalizzare la direzione orientale della Linke e stringere un asse con i settori inquieti della SPD che conduca al lancio di un esperimento neo-socialdemocratico con vocazione maggioritaria, sulla scia di quanto già avvenuto in altri paesi europei. La stessa Wagenknecht ha definito il programma del suo movimento, che verrà lanciato il prossimo 4 settembre con una conferenza stampa in preparazione a Berlino, come d'ispirazione “socialdemocratica classica”. Quali forme possa assumere questo progetto a livello elettorale, risulta ancora poco chiaro.
Alla luce di tutto questo, quale qualificazione dare del progetto di Aufstehen da un punto di vista comunista? La prima, doverosa osservazione è che se esso avesse successo, sposterebbe sensibilmente a sinistra l'asse politico tedesco, andando contemporaneamente a contendere i settori popolari più inquieti all'estrema destra di AfD. E ciò nel clima creato dalla polemica scatenata nel giugno scorso dalle gravissime dichiarazioni del nuovo ambasciatore statunitense a Berlino e amico personale di Donald Trump, Richard Grenell, riguardo al proprio intento di sostenere l'emersione della destra populista. Dichiarazioni, quelle del neoambasciatore USA a Berlino, che davano sostanza alle ripetute manifestazioni di ostilità del presidente USA contro l'UE a guida tedesca, aprendo una crisi diplomatica e facendo riscontro all'annuncio della creazione della fondazione europea "The Movement" di Steve Bannon, finalizzata al conseguimento dello stesso risultato su scala continentale, dietro cui la mano dell'inquilino della Casa Bianca è evidente.
Se dunque la riuscita di Aufstehen avrebbe un contenuto progressivo da salutare positivamente nella temperie politica tedesca e internazionale di questa fase, i richiami della Wagenknecht alla pericolosità delle minacce contro la pace sociale e la consonanza tra le posizioni di politica estera enunciate dai principali esponenti del nuovo soggetto e gli assi strategici della politica di sviluppo di tutti i governi tedeschi post-unitari si può dire che escludano per la nuova formazione un carattere di alternativa sistemica. In assenza, per il momento, di un programma politico da valutare, il moderatissimo euroscetticismo e le prese di posizione contro lo strangolamento della Grecia (altro momento di scontro egemonico tra Washington e Berlino) valgono solo parzialmente a dissipare le inquietudini sulla tendenza alla totale integrazione nel sistema politico-istituzionale tedesco che Aufstehen già manifesta con una certa evidenza. La possibile rottura della conventio ad excludendum e la conseguente ascesa di settori della sinistra radicale tedesca a posizioni di potere nelle istituzioni federali rappresenterebbero certamente un fattore di democratizzazione della società, ma i contenuti sostanziali del progetto e la sua relazione con gli interessi dei gruppi monopolitistici che dominano la vita economica del paese appaiono quantomeno ambigui.
A parlare in favore della Wagenknecht e di Lafontaine la coerenza di fondo del loro percorso rispetto ai canoni di una parabola autenticamente progressista e per quanto ci riguarda, in particolare per la Wagenknecht, la formazione marxista elaborata a un livello intellettuale raro nell'agone politico contemporaneo. Tutti elementi da contemperare in un approccio critico e dialettico al nuovo soggetto, teso a salutarne i positivi elementi di novità e sostenerne la possibile influenza progressiva sul dibattito politico tedesco ed europeo, senza per questo perdere di vista la profonda divergenza strategica che ci divide insanabilmente da qualunque esperienza di marca neo-socialdemocratica, a dispetto delle convergenze necessarie e della inevitabile, parziale, sovrapposizione cui le nostre traiettorie sono costrette dalla fase storica reazionaria che attraversiamo.