Secondo alcuni neoliberisti, e in particolare quelli della tendenza monetarista, l'inflazione si spiega con l'eccessiva quantità di moneta stampata che alimenterebbe la spirale dei prezzi.
Analogamente si sostiene che aumentando i salari si producono effetti negativi sul lavoro e sull'occupazione. Più precisamente in un'economia chiusa l'aumento dei salari nominali produrrebbe solo inflazione riconducendo così i salari reali al livello originario, senza nessun impatto sull'occupazione. Se invece si considera il commercio con l'estero, riducendo la competitività del sistema economico nazionale nel mercato mondiale, diminuiscono le esportazioni e aumentano le importazioni, sottraendo spazi alla produzione domestica e con ciò riducendo l'occupazione.
Altro argomento dei neoliberisti è che la causa del mancato reperimento di forza lavoro stagionale sia legata al reddito di cittadinanza.
In attesa di conoscere gli indirizzi economici del nuovo Governo urge fare chiarezza su questi autentici luoghi comuni mainstream. La prima obiezione è che i prezzi non si adeguano automaticamente secondo i principi di autoregolamentazione del mercato. Se così fosse, il principio varrebbe anche per i salari i quali, invece, hanno perso potere di acquisto negli ultimi 30 anni. Se guardiamo alla condizione di vita delle classi medio basse dei paesi a capitalismo avanzato vediamo (si rinvia ai testi dell'economista serbo americano Branko Milanovic) un progressivo indebolimento del loro potere di acquisto nei 30 anni della globalizzazione. Le delocalizzazioni produttive hanno alimentato la discesa del potere di acquisto e il sistema degli appalti nei servizi, accompagnato dalle modifiche allo Statuto dei lavoratori in materia di licenziamento, hanno favorito la crescita esponenziale della precarietà occupazionale e salariale con il progressivo deterioramento delle condizioni di vita.
Per quanto ne dicano i neoliberisti, l’inflazione non potrà essere spiegata solo in rapporto ai cosiddetti aggregati monetari né con i principi di autoregolazione del mercato. I cantori di questa novella in realtà si prefiggono ben altri obiettivi ad esempio uno Stato snello che non intervenga sulle politiche monetarie ed economiche se non nell'ottica di favorire le parti datoriali o per favorire lo spostamento della ricchezza prodotta dai redditi da lavoro ai capitali. In quest'ottica il lavoro viene sacrificato alle ragioni del profitto favorendo dinamiche salariali e contrattuali al massimo ribasso.
Il ruolo regressivo dei sindacati rappresentativi potrebbe, per esempio, essere fotografato dal contratto dei “servizi fiduciari” – la vigilanza privata e più genericamente i servizi di portierato – firmato dalle maggiori sigle sindacali italiane che prevede una paga oraria di 4,4 euro lordi all'ora! Se accetti e sottoscrivi contratti del genere difficilmente potrai rimettere al centro della agenda politica la questione del lavoro e dei redditi come va dicendo da mesi il segretario generale della Cgil Landini. Se vengono siglati contratti del genere, e la lista potrebbe essere sterminata, difficilmente possiamo parlare di dignità salariale e di tutela costituzionale della forza lavoro perché con queste cifre è inimmaginabile una esistenza dignitosa.
La discesa agli inferi dei salari e del loro potere di acquisto è il risultato dei processi di globalizzazione, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, insieme all'abbattimento delle tutele individuali e collettive. Se perdiamo di vista queste considerazioni prevarrà il leitmotiv del reddito di cittadinanza come soluzione errata al problema occupazionale perché con i soldi del reddito i beneficiari non accetterebbero lavori stagionali e precari, oppure i famigerati servizi fiduciari a 4,4 euro all'ora.
La cultura dominante e l'informazione mainstream giocano su questi temi con la consueta scaltrezza ma inspiegabilmente sono i sindacati a essere subalterni a logiche che dal loro punto di vista dovrebbero essere avversate e rifiutate in toto.
Negli ultimi 40 anni il tessuto produttivo e imprenditoriale italiano ha abbandonato la ricerca e l'innovazione, se non in alcuni campi e a solo beneficio dei redditi elevati o della speculazione finanziaria, per specializzarsi in settori a bassa produttività e con salari da fame. I processi di privatizzazione, l'affidamento di servizi, anche pubblici, ad appalti con contratti da fame è un'altra fotografia incontrovertibile della situazione.
E tra le narrazioni diffuse si ritrova anche la necessità di controllare e ridurre il deficit di bilancio (la differenza tra tasse e spesa pubblica) e il debito pubblico, dimenticando che nell'arco di 40 anni le classi sociali abbienti hanno beneficiato di sconti e favori di ogni tipo pagando in proporzione meno tasse della classe medio bassa. Se continueremo a proporre flat tax o detassazioni varie alle imprese ben presto ci ritroveremo con un gettito fiscale del tutto insufficiente a pagare, non solo le pensioni, ma tutte le misure del welfare. Da qui l'ipotesi di un ulteriore abbassamento delle pensioni, promettendo invece investimenti a favore dei giovani e delle famiglie, potrebbe rappresentare il classico specchietto per le allodole.
Siamo di fronte a un tentativo di approfondire lo scambio diseguale che ricorda quanto avvenuto 15 anni fa, quando si parlava di eccessive tutele della forza lavoro stabile come costante minaccia per il futuro occupazionale delle giovani generazioni. In realtà si sono tolti diritti e potere d'acquisto ai primi senza recare alcun beneficio ai secondi che sono stati travolti dalla precarietà contrattuale, salariale ed esistenziale.
Se parliamo di aumento dell'inflazione dovremmo guardare alla guerra in corso, alla spirale speculativa sui prezzi delle materie prime e al ruolo dello Stato nell'economia.
Per queste ragioni non potremo opporci efficacemente alle politiche fiscali ed economiche del Governo senza rimettere in discussione le decennali scelte adottate nell'ottica di favorire il libero mercato, l'impresa e le parti datoriali impoverendo progressivamente il potere d'acquisto e di contrattazione della forza lavoro.