Flessibilità è sinonimo di “elasticità, adattabilità, cedevolezza”, nomi che alludono al suo significato figurato: “che si può modificare, che cede facilmente alla volontà altrui”. Precariato deriva dal latino prèx, ossia “ottenuto per preghiera, che non dura per sempre, ma solo quanto vuole il concedente”. È sinonimo di instabile, malfermo e di privo di equilibrio.
I termini flessibilità e precariato sono oggi al centro del dibattito socio-politico in quanto sono generalmente utilizzati per indicare le nuove tipologie di lavoro atipiche. Sono, dunque, divenuti negli ultimi anni il tema centrale dei dibattiti sul mercato del lavoro nel nostro paese. Prima che la classe dominante arrivasse a risolvere definitivamente la questione, eliminando lo stesso articolo 18 dallo Statuto dei lavoratori, che difendeva il lavoratore dai licenziamenti senza giusta causa, rendendo di fatto tutti precari, si era sviluppato uno spettro quanto mai ampio che andava dai contratti a termine al lavoro in affitto, dall’apprendistato al lavoro parasubordinato, a chiamata, stagionale, part-time, a domicilio, a collaborazione continuativa e coordinata, a progetto, a somministrazione, in subaffitto e interinale, a tempo determinato, a tempo parziale, nuovo apprendistato, fino ad arrivare al lavoro nero [1]. Sono le modalità con cui sono state andate perdute le lotte vinte dai lavoratori nei decenni passati, determinando così, per la classe subalterna, una mostruosa riduzione dei propri (residui) diritti e dall’altra l’adeguamento più idoneo della legislazione che regola lo sfruttamento alla fase di crisi dell’attuale modo di produzione.
La forma stagnante dell’esercito industriale di riserva, come correttamente e dettagliatamente definita da Marx, è quella che meglio risponde ai fenomeni di lavoro irregolare – lavori a tempo parziale, stagionale, occasionale, lavoratori a prestito (cosiddetto leasing, ossia “caporalato” più o meno legale), prestatori d’opera (solo formalmente autonomi), falso apprendistato o formazione (variamente mascherati), fino alle nuove forme di lavoro a domicilio. La categoria della sovrappopolazione relativa, quella stagnante, che costituisce una parte dell’“esercito operaio” attivo, ha un’occupazione assolutamente irregolare. Essa offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di forza-lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio della classe operaia. Il suo volume si estende allo stesso modo che con il volume e con l’energia dell’accumulazione progredisce la “messa in soprannumero”. Ma essa costituisce, allo stesso tempo, un elemento della classe operaia che si riproduce e che si perpetua e che, in proporzione, partecipa all’aumento complessivo della classe operaia in misura maggiore che non gli altri suoi elementi. La forza-lavoro precaria ha una occupazione irregolare e, dunque, da una parte è una componente dell’esercito industriale attivo, dall’altra è una componente dell’esercito industriale di riserva, definita stagnante in quanto tendenzialmente destinata a rimanere identica a se stessa. Essa è prodotto della sovrapproduzione delle forze produttive, che dal punto di vista della forza-lavoro genera la sovrappopolazione assoluta, ovvero la disoccupazione, e la sovrappopolazione relativa, ovvero il lavoro precario. Tale sovrappopolazione è una necessità assoluta e ineluttabile del modo di produzione capitalistico, il quale, giunto a una certa fase del suo sviluppo innesca la crescente contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Ma è una necessità assoluta anche nel senso che è indispensabile alla riproduzione su scala allargata del capitalismo, in quanto accresce i margini di plusvalore. Perciò, dal punto di vista esistenziale, il lavoratore irregolare è costantemente sospeso fra un’occupazione generalmente poco soddisfacente, che comunque gli consente di sopravvivere mantenendo la propria indipendenza, e il baratro della disoccupazione. La forza-lavoro precaria è, dunque, in quanto tale, costantemente sottoposta al ricatto di finire nella disoccupazione. Ciò consente all’acquirente di tale forza-lavoro di ridurre al minimo le spese per la sua riproduzione, il che dal punto di vista esistenziale del lavoratore comporta la riduzione delle proprie condizioni di vita al di sotto del livello medio degli occupati. Perciò il padronato tende a richiedere da essa il massimo del tempo di lavoro in cambio di un livello minimo della retribuzione. Inoltre essa tende a essere occupata, spesso al nero, nei comparti più duri della produzione, dal settore tessile e dell’abbigliamento all’edilizia.
Ciò favorisce la disgregazione della coscienza di classe fra i lavoratori e la mancata percezione da parte dei “garantiti” di non aver altro da perdere, nella lotta contro lo sfruttamento, che le proprie catene. Così gli ideologi al servizio della classe dominante hanno buon gioco nel favorire la contrapposizione fra gli interessi dei giovani, che generalmente costituiscono la maggioranza degli irregolari, e quelli dei lavoratori regolari che vengono presentati come privilegiati in quanto garantiti. Al punto da far credere che le condizioni di sfruttamento degli irregolari dipendano essenzialmente dai presunti privilegi dei “garantiti”. In tal modo il ricatto esercitato sulla forza-lavoro precaria si estende anche alla forza-lavoro garantita che, se vuole mantenere la propria occupazione, deve rendersi flessibile e venire incontro, come l’agnello condotto al macello, alle esigenze di massimizzare l’estrazione di plusvalore da parte del proprio antagonista (il capitalista-vampiro). D’altra parte, la pressione che il lavoro precario esercita sulle forze occupate, costringendo queste ultime a divenire flessibili nell’esercizio e nella salvaguardia dei propri diritti, conquistati nel corso di decenni di lotte, porta i “garantiti” a individuare nel precario un concorrente sleale e, oggettivamente, un crumiro. Dal momento che i precari, oltre ad essere giovani, sono sempre più spesso lavoratori immigrati, spesso clandestini e, dunque, ancora più facilmente ricattabili.
Spesso gli apologeti della restaurazione liberista hanno cercato di mistificare il concetto di precarizzazione della forza-lavoro con termini come flessibilità o mobilità della forza-lavoro. Flessibilità, in particolare, è un termine che popola con la sua presenza le discussioni, gli articoli, gli accordi e i contratti. Attorno alla flessibilità è stata prodotta un’accurata e intensa campagna ideologica politico-sindacale, la quale ha mirato a confondere e a rappresentarla in modo apologetico. Nell’odierno mondo del lavoro, che sarebbe riflessivo e relazionale, la competenza più ricercata è la flessibilità mentale (flexibilitas in latino significa elasticità), quale capacità d’utilizzare linguaggi ed approcci diversi in funzione delle varie situazioni ed in sintonia con i propri interlocutori per stabilire relazioni efficaci, mettendo a frutto con successo le proprie capacità. Sono stati a tale scopo sviluppati studi volti a indagare la struttura logica del pensiero flessibile e si è cominciato addirittura a riflettere sul modo in cui la flessibilità cognitiva, implementando la capacità associativa, influirebbe sull’estetica. Essa sarebbe connessa alla problematica della comunicazione flessibile, al Thinking Building. Si teorizza a tal proposito un pensiero flessibile che favorirebbe lo sviluppo armonico di tutte le componenti della personalità, intervenendo nella soluzione dei problemi personali e organizzativi, per valorizzare il capitale umano e creare valore nelle imprese. Sta pertanto sorgendo una pedagogia della flessibilità che insegni a gestire il cambiamento e a raggiungere l'eccellenza in ogni ambito professionale consentendo di elevare la qualità delle performance personali in un contesto sociale caratterizzato da complessità e incertezza, in quanto in perpetuo mutamento.
Altri studiosi, apologeti del lavoro flessibile, considerano il precariato una variante distorta della flessibilità, causata dalla discontinuità occupazionale e retributiva che impedisce di pianificare la propria esistenza. Con il termine precariato si intende, generalmente, la condizione di quelle persone che vivono, involontariamente, in una situazione lavorativa che rileva, contemporaneamente, due fattori di insicurezza: 1) mancanza di continuità del rapporto di lavoro e 2) mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura. Con questo termine si intende fare altresì riferimento al cosiddetto lavoro nero e al fenomeno degenerativo dei contratti cosiddetti flessibili (part-time, contratti a termine, lavoro parasubordinato). La flessibilità sarebbe invece applicabile sia a contratti a tempo determinato che a tempo indeterminato, avrebbe una connotazione neutra, se non addirittura positiva in quanto andrebbe identificata con la mobilità. Grazie a essa i lavoratori non sarebbero più legati a tempo indeterminato al proprio lavoro, ma muterebbero più volte professione e azienda nell’arco della carriera e sarebbero portati ad accrescere le competenze professionali e di conseguenza il livello occupazionale.
Al contrario vi sono studiosi che, dati i confini labili che separano le due forme, ritengono che la distinzione fra flessibilità e precariato sia più teorica che reale. Essi ritengono difficile operare una netta distinzione tra i due termini, in quanto la flessibilità – eliminando diversi vincoli legali che regolano l’utilizzo e il licenziamento della forza-lavoro – avrebbe favorito la diffusione del lavoro precario. Del resto i confini che li separano sono labili, dal momento che il lavoro flessibile è generalmente legato a contratti meno vincolanti e costosi a livello previdenziale, in quanto rendono più semplice liberarsi della forza-lavoro divenuta superflua.
Al di là delle differenti posizioni, è certo che e il lavoro flessibile non è necessariamente precario, mentre quest’ultimo è necessariamente flessibile, in quanto si dà nel momento in cui i contratti flessibili si reiterano in una misura difficilmente definibile.
Note:
[1] Prima di arrivare al Jobs Act, che ha di fatto eliminato il posto fisso, rendendo tutti i lavoratori licenziabili anche senza giusta causa, la forza-lavoro precaria in Italia ammontava a circa otto milioni, con quattro milioni di lavoratori in nero, due milioni e mezzo di contratti a termine, un milione di contrattisti solo formalmente autonomi e oltre mezzo milione di apprendisti. In Italia la flessibilità quantitativa riguardava circa 1,8 milioni di contratti di collaborazione coordinata continuativa, 300.000 lavoratori con uno o più contratti procurati da agenzie dell’interinale, 200.000 contratti di formazione-lavoro, 1,45 milioni di lavoratori dipendenti con contratti a tempo determinato e 1,36 milioni a part-time. Le tipologie dei contratti di lavoro flessibile erano almeno 35; alcuni ne avevano censite 37 o 38, si tratta di vedere specie o sottospecie, ma eravamo in quell’ordine di grandezza. La flessibilità qualitativa è quella interna, dei regimi d’orario e riguardava: il lavoro notturno per 2,7 milioni di lavoratori; il lavoro festivo per 1,8 milioni; il sabato lavorativo per 2,8 milioni; il lavoro straordinario per 1,9 milioni.