Manca personale sanitario per gli ospedali e le Rsa (Residenze Sociali Assistenziali)? Non ci sono medici o infermieri? Sono insufficienti i tecnici di laboratorio? La soluzione esiste, sarebbe sufficiente porre fine al numero chiuso nelle università per l’accesso alle facoltà sanitarie e rimuovere ogni tetto in materia di assunzione nel Ssn. Ma queste risposte avrebbero un costo elevato sul bilancio dello Stato, modificando radicalmente gli equilibri (o meglio squilibri) esistenti negli atenei e nella ricerca.
A sostenere il numero chiuso, anche tacitamente, troviamo associazioni di mestiere o pseudosindacati di settore. Ma forse il ragionamento da fare resta sempre quello economico.
I paesi del Nordeuropa cercano da tempo personale sanitario. Sono migliaia ormai i medici e gli infermieri italiani che si trasferiscono in altri paesi nei quali, per altro, la retribuzione è superiore a quella che percepirebbero in Italia, dove invece si ricorre, per abbattere il costo del lavoro a cooperative di servizi, a interinali, a partite Iva oltre ai tempi determinati, con evidenti conseguenze sulla qualità dei servizi.
Questo paradosso potrà essere definito in molti modi. Ma la fantomatica fuga di cervelli, e di professionalità, è legata non solo al numero ridotto di concorsi banditi dal settore pubblico ma anche al variegato terzo settore, o privato sociale come lo si voglia chiamare, che inquadra il proprio personale con contratti sfavorevoli e stipendi inferiori del 30/40 % rispetto al Ccnl sanità.
Fatti due conti, allora il giovane, o meno giovane, sanitario non ci penserà due volte: si trasferirà all’estero per svolgere la propria professione percependo salari più alti.
In un convegno tenutosi recentemente (ne parla il portale La Voce.info) sono stati riportati dati allarmanti sull’emergenza sanitaria.
Viene riferita la carenza di 6 milioni di operatori sanitari nel mondo, con una previsione di 18 milioni nel 2030. Già oggi gli Stati Uniti accolgono quasi 200mila infermieri stranieri, il Regno Unito 100mila, la Germania 70 mila. Per l’Italia la cifra è di quasi 40mila, con fabbisogni stimati di almeno 60mila, mentre nello stesso tempo esportiamo infermieri verso Svizzera, Germania, Regno Unito e altri paesi. Il Covid ha inoltre comportato serie conseguenze per il benessere e la salute del personale ospedaliero, aggravando le necessità.
Il sistema sanitario italiano viene da anni di tagli e di mancati investimenti che spingono l’Osservatorio Gimbe a parlare senza mezzi termini di “definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale”. Il finanziamento pubblico è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro, di cui circa 25 miliardi nel 2010-2015 per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi nel 2015-2019, quando, per problemi di finanza pubblica, alla sanità sono state destinate meno risorse di quelle programmate. In termini assoluti il finanziamento pubblico in 10 anni è aumentato di 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,07%).
Un altro dato allarmante è offerto dai posti letto negli ospedali e in terapia intensiva che 40 anni fa erano superiori a quelli di oggi. Ma il depotenziamento della sanità pubblica è comune a tutti i paesi Ue e prodotto delle regole dettate da Maastricht delle quali invece parliamo poco.
Nel 2010, nei paesi Ue, c’erano circa 574,1 posti letto ogni 100mila abitanti nelle strutture ospedaliere. Undici anni dopo i posti sono scesi a 531,9 (circa 43 posti letto in meno ogni 100mila abitanti).
Perfino il diritto all’aborto oggi viene messo in discussione dallo strapotere dei medici obiettori: sono 31 (24 ospedali e 7 consultori) le strutture sanitarie in Italia che presentano il 100% di obiettori di coscienza tra medici ginecologi, anestesisti, infermieri o Oss. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%.
Con questi numeri è ipotizzabile che ben presto in alcune realtà territoriali il diritto alla interruzione della gravidanza esista solo sulla carta. Perciò la difesa astratta della 194 non rappresenta certo un punto di arrivo ma il segnale di una debolezza culturale e politica.
Numerosi contratti nazionali hanno potenziato il welfare aziendale che si traduce in convenzioni con il privato che eroga prestazioni sanitarie e previdenziali. Difficile pensare che al contempo gli stessi sindacati possano difendere la sanità pubblica
Il diritto alla cura e alla prevenzione si scontra con interminabili liste di attesa nel settore pubblico. Da qui il ricorso alle strutture private, ricorrendo anche alle convenzioni stabilite nel welfare aziendale.
Ancora da capire cosa produrrà – vedasi il programma elettorale di Fdi – il "coinvolgimento profondo nella sanità dei medici di medicina generale e delle farmacie pubbliche e private convenzionate" a fronte dell’effettivo depotenziamento della sanità pubblica in atto.
Crediamo siano proprio la sanità, il diritto alla cura e alla prevenzione, argomenti tanto scottanti quanto dirimenti per i prossimi anni, come del resto dimostra la tragica esperienza pandemica.
La sanità pubblica per essere credibile deve avere fondi e risorse professionali a disposizione. Se invece continuano i tagli e i mancati finanziamenti, il ricorso alle strutture private rappresenterà una soluzione sempre più caldeggiata nonostante siano stati gli ospedali pubblici i soli ad affrontare l’emergenza covid. E il ricorso alle strutture private rappresenta anche un fattore di costo con perdita del potere di acquisto di salari e pensioni.
Il rilancio della sanità pubblica non potrà tuttavia avvenire se non superiamo quei tetti di spesa che sono la causa dei tagli e dei definanziamenti, senza dimenticare il ruolo regressivo di lobby e logiche baronali negli atenei, la costante ricerca di abbassare il costo del personale o rafforzare la precarietà che riguarda da anni anche le figure professionali sanitarie.
La parola d’ordine verso una società della cura può rappresentare una inversione di tendenza rispetto agli ultimi 40 anni di tagli solo se teniamo unite tutte le questioni finora analizzate, se non cediamo alle sirene del welfare aziendale e soprattutto se non subiamo le logiche della equidistanza tra pubblico e privato ormai trasversali a tutti gli schieramenti politici.
Ma, lo ripetiamo ancora una volta, per difendere il pubblico occorre denunciare con forza i tetti di spesa e i parametri imposti da Bruxelles.