Potremmo dire di avere avuto ragione, ma la ragione, dice un proverbio, è spesso degli imbecilli. E di utili idioti ce ne sono fin troppi.
Per mesi avevamo messo in guardia i lavoratori e le lavoratrici della Pa sull’utilizzo che avrebbero fatto dello smart working, una modalità lavorativa finalizzata al contenimento dei costi e al risparmio nella spesa per il personale e altro. E così è accaduto. Hanno risparmiato su tutto: dagli affitti alle utenze, dai buoni pasto non erogati fino agli straordinari non concessi a chi lavora da casa; senza dimenticare la crescita delle prestazioni e delle mansioni esigibili dai datori di lavoro pubblici e privati.
Milioni di euro risparmiati non accordando alla forza lavoro in smart il buono pasto ma spesso e volentieri pretendendo, per chi lavora a casa, il rispetto dei canonici orari. Una evidente contraddizione taciuta. Del resto il lavoro in smart per legge è ancora a progetto e si distingue dal telelavoro che prevede non solo una postazione fissa ma anche il rispetto dei canonici orari di servizio. Ma quel telelavoro prevedeva anche, per esempio nel contratto degli enti locali, il rimborso di alcuni costi sostenuti dal lavoratore. Per questo hanno pensato a uno strumento più flessibile e meno costoso come lo smart working.
Ma non accordare i buoni pasto a chi lavora da casa segue forse qualche logica? Chi lavora a casa forse non mangia? In smart si digiuna? Parrebbe di sì!
Ora si scopre, perché Cgil, Cisl e Uil hanno taciuto e acconsentito, e anche a questo proposito i proverbi sarebbero di aiuto, tanto per ricorrere a qualche luogo comune. La ragione è semplice: parte dei risparmi (mancata erogazione dei buoni pasto e degli straordinari, impediti a chi sta in smart) saranno destinati al welfare integrativo, pensioni in primis, che gli stessi sindacati firmatari di contratto sono chiamati a cogestire.
L'articolo 1, comma 870, della legge 178/2020 (legge di bilancio) prevede che i risparmi, accertati a consuntivo dal collegio dei revisori, siano in parte destinati al welfare aziendale e alla contrattazione integrativa (ovviamente con le forche caudine della performance). Ma nulla è dato sapere su quale sarà l’effettivo potere contrattuale delle Rsu. I soliti cecchini sindacali hanno subito risposto che i risparmi derivanti dalla emergenza Covid torneranno ai lavoratori, ma la realtà sta veramente in questi termini?
Se così fosse sarebbe all’ordine del giorno la 14ma per i dipendenti della Pa che ne sono da sempre privi, svincolerebbero questi soldi dalla performance o incrementerebbero il fondo della produttività che ha subito continue erosioni per anni sancendo la perdita del potere di acquisto nei contratti di secondo livello. Siamo poi in presenza di un provvedimento una tantum, finalizzato al solito scambio a perdere tra salario e bonus/servizi. Ricordare i famosi 100 euro destinati al personale in presenza nel mese di marzo? I 100 euro si sono rivelati inferiori alla metà: una elemosina accordata a chi ogni giorno rischiava salute e vita lavorando senza sicurezza e con pochi dispositivi di protezione individuale.
In alcuni enti locali e uffici della Pubblica amministrazione chi opera in smart è stato perfino, e illegittimamente, escluso dalla indennità contrattuale denominata condizione lavoro, che oggi invece vorrebbero accrescere, non per tutti ma solo per una parte minoritaria del personale, utilizzando parte dei cosiddetti risparmi. A nostro avviso siamo invece in presenza dell’ennesimo furto legalizzato ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici.
La situazione varierà da comparto a comparto della Pubblica amministrazione. Siamo certi che i prossimi contratti nazionali dei quali si ignora la parte normativa sanciranno questo stato di cose. Intanto in alcune situazioni è possibile (ma non ancora negli enti locali) incrementare il welfare aziendale a favore di sanità e previdenza integrativa. Invece di aumentare gli investimenti per sanità e servizi pubblici Cgil, Cisl e Uil preferiscono investire sui fondi previdenziali e al contempo rinunciano a contrastare la perdita di potere di acquisto e di contrattazione in cambio di briciole.
Lo smart working, per quanto sia stato funzionale a limitare i contagi, è un’arma a doppio taglio, figlio della illusione del lavoro liberato da costrizioni orarie. Un figlio illegittimo che scopriamo essere portatore di tagli al potere di acquisto e di limitazioni a quello di contrattazione.
Ne parleremo ancora a lungo visto che per legge almeno metà della forza lavoro nella Pubblica amministrazione potrebbe essere collocata in smart anche dopo la pandemia, facendo risparmiare soldi e distruggendo la democrazia nei luoghi di lavoro che necessita di partecipazione in presenza (e non virtuale). E al contempo lo smart diventa l’arma per rafforzare sanità e previdenza integrativa, altro grimaldello per scardinare i diritti universalistici che dovrebbero essere garantiti dalla sanità e dalla previdenza pubbliche, con lo scambio tra salari, diritti e bonus. Non c’è che definirla un’arma di distruzione dei diritti e del salario, altro che conquista.