Va detto con estrema chiarezza: o aggiorniamo la cassetta degli attrezzi per interpretare la realtà contemporanea o introiettiamo il punto di vista delle classi dominanti e le categorie con le quali operano nei vari processi di ristrutturazione.
Anche le categorie tradizionali vanno aggiornate. Per anni si è parlato di neoliberismo come fautore dello stato minimo, salvo poi scoprire che questa riduzione a termini infimi del ruolo statale non è avvenuta, piegandosi invece lo Stato a un altro dogma: favorire il mercato e il suo funzionamento. Lo Stato “forte” serve per favorire i capitali a discapito dei salari, il capitalismo della sorveglianza a danno della partecipazione democratica, le logiche securitarie a sfavore dell’effettivo potere di controllo e di indirizzo dell’economia a fini sociali.
L’avvento del neokeynesismo non ha cancellato i circoli liberisti che dopo i trent’anni cosiddetti gloriosi si sono presi la rivincita con l’avvento di Reagan negli USA e della Thatcher in Gran Bretagna, non disdegnando incursioni nel continente latinoamericano con i Chicago Boys consulenti delle giunte militari nel Sud e Centro America. E questi circoli, dopo un quindicennio di globalizzazione, hanno cercato di governare i disastri sociali prodotti appoggiando l’ascesa dei sovranismi che in campo economico si muovono secondo le direttive neoliberiste.
Il governo Meloni ha un'idea ben precisa del welfare e del ruolo statale. Sminuirne l’operato non aiuterà a costruire un’opposizione di classe ai provvedimenti in atto a meno di non limitarsi a una critica parziale rivolta alla salvaguardia dei diritti civili e di una politica migratoria che tuttavia negli anni del centrosinistra non ha mai rimesso in discussione la Bossi Fini.
L’idea di welfare della Meloni mette al centro le famiglie autoctone e il ruolo delle donne ridotto a quelle di madri; possiamo soffermarci sulle dichiarazioni di Lollobrigida o di La Russa, ma farlo significa anche andare oltre ai linguaggi utilizzati dietro ai quali si cela una precisa ideologia tesa a giustificare pratiche e scelte politiche rispetto alle quali il perbenismo liberal palesa la totale incapacità di critica radicale e non sa avanzare controproposte convincenti.
Lo smantellamento del reddito di cittadinanza e del decreto Dignità restano due capisaldi dei primi mesi di questo esecutivo proprio come avevano suggerito gli ambienti padronali.
Ma sul ripristino della precarietà, che tuttavia non è mai stata contrastata e arginata, pesa anche la scelta dei sindacati rappresentativi che da sempre si sono mostrati fin troppo attenti alle istanze padronali concedendo deroghe continue e peggiorative rispetto ai contratti nazionali. Lo abbiamo già scritto in altre occasioni: il sistema delle deroghe e la contrattazione di secondo livello, la previdenza e la sanità integrativa sono esempi eloquenti della degenerazione culturale, politica e sindacale imperante nel nostro paese, come la pia illusione che dentro i contratti nazionali si possa disciplinare una sorta di salario minimo. Se pensiamo che un ipotetico salario minimo presenta un costo orario superiore a innumerevoli contratti nazionali applicati per milioni di lavoratori, capiamo l’avversione innaturale dei sindacati verso una legge sul salario minimo che andrebbe a smontare anche l’impianto contrattuale, nel nome della moderazione salariale, da loro stessi costruito.
Il prossimo decreto legge sul lavoro fotografa questa situazione ed è paradigmatico: fino a dodici mesi i contratti a tempo determinato saranno privi di causali, che scatteranno in seguito rinviando a motivi previsti dai contratti nazionali o a esigenze di natura tecnica e produttiva che i datori non avranno difficoltà a riferire alla commissione incaricata delle certificazioni necessarie. Il mero rinvio alla contrattazione sindacale accontenta le organizzazioni rappresentative ma porta a casa il risultato sperato da Confindustria: la progressiva eliminazione delle causali e dei vincoli che limitavano il ricorso al tempo determinato.
Nel decreto troviamo poi innumerevoli semplificazioni per le aziende: il rafforzamento del contratto di espansione per sostituire la forza lavoro anziana con quella giovane meno pagata e inquadrata magari con livelli inferiori (e contratti sfavorevoli a determinare riduzione salariale), sgravi e aiuti per le assunzioni con contratto di apprendistato.
Tutto ciò in cambio del taglio del cuneo fiscale che porterà pochi soldi in busta paga riducendo al contempo il welfare; un’idea, quella di diminuire le tasse, mirata a favorire le imprese che a loro volta eviteranno di aumentare il reale potere d'acquisto di salari e pensioni, magari rivedendo il codice IPCA [1] in senso regressivo visto che il governo non ha ancora previsto fondi per rinnovare i contratti pubblici e non è detto voglia farlo con le attuali regole, nate, lo ricordiamo, per ancorare gli aumenti al PIL e non al reale costo della vita, pensando a un involutivo superamento delle stesse.
Il decreto del lavoro risponde a un disegno complessivo che mira non solo al contenimento dei salari e del potere di acquisto, ma a costruire una sorta di nuovo consociativismo con i sindacati rappresentativi banchettando allegramente sul nostro welfare.
Un decreto di classe, anzi rispondente alla lotta di classe dall’alto contro le classi subalterne.
Note:
[1] Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato, elaborato a livello europeo per rendere confrontabili i parametri dei diversi Paesi. Non tiene conto degli aumenti dei prodotti energetici e viene utilizzato per definire gli aumenti di base nei rinnovi contrattuali. Nel pubblico impiego non ha praticamente avuto effetto dal momento che il suo debutto ha coinciso con lo stop al rinnovo dei contratti.