Sono passati ormai ben tredici mesi dal primo lockdown del marzo 2020, un periodo nel quale una parte consistente dei cittadini italiani, dei lavoratori, degli studenti, dei piccoli commercianti sperimentava nella propria quotidianità i primi effetti della pandemia.
Ciò avveniva attraverso una reclusione di due mesi che avrebbe portato, ai primi di giugno, a una riduzione drastica dei contagi e dei morti in Italia.
In quei mesi drammatici, nei quali le scuole si attrezzavano per consentire l’esercizio del diritto allo studio tramite la didattica a distanza, in cui vasti settori delle attività lavorative (ristoranti, bar, alberghi, settore dello spettacolo) cominciavano ad avvertire per primi e in maniera dirompente gli effetti devastanti della crisi, c’era un settore che più degli altri conduceva in maniera decisa ed energica la sua battaglia politica, culturale e ideologica, per smarcarsi dalle regole e dalle restrizioni.
Questo settore rivendicava la sua primogenitura e la sua superiorità rispetto al resto della società: si trattava dei proprietari delle grandi fabbriche (in particolare del Nord) che si sono battuti tenacemente, attraverso una potente azione di lobby sia nelle istituzioni che nei principali organi di stampa, affinché il loro settore venisse esentato da ogni restrizione.
Questa pressione occulta ha fatto sì che le restrizioni venissero interamente scaricate sul resto della società.
Gli imprenditori si sentivano forti del paradigma neoliberista per cui la riduzione delle esportazioni e, più in generale, il rallentamento delle attività produttive, avrebbe generato un danno di gran lunga superiore rispetto alle vite umane perse e all’intasamento dei pazienti nelle terapie intensive.
Non è un caso se nella prima fase della pandemia i lavoratori del settore manifatturiero e della logistica si sono dovuti scontrare contro gli industriali, contro i vertici dei loro stessi sindacati e contro lo Stato, per ottenere, almeno sul loro posto di lavoro, delle basilari norme di sicurezza che, seppur in forma inadeguata e parziale, hanno evitato il primo dilagare della pandemia in Italia.
Consci di questa supremazia i padroni italiani, invece di rivendicare un maggior intervento dello Stato finalizzato al contenimento della pandemia, hanno scatenato i settori della piccola borghesia – i cui profitti dipendono dal consumo interno, quindi dalla circolazione delle persone – in una folle campagna mediatica negazionista finalizzata alla riapertura di tutte le attività.
Gli umori e le paure della piccola borghesia sono stati strumentalizzati per evitare che si realizzasse in Italia una efficace lotta alla pandemia basata sulla chiusura momentanea e generalizzata delle attività produttive, sui tracciamenti e su una politica indipendente e autonoma dello Stato nell’acquisto e somministrazione dei vaccini.
In questo contesto di apparente anarchia basata su scelte estemporanee intorno alla gestione momentanea dell’esistente, tutte miranti a occultare i privilegi di un’oligarchia avida di profitti, vanno collocate le scelte politiche dello Stato italiano anche in materia di istruzione, con le evidenti conseguenze sull’intera popolazione scolastica: studenti, personale della scuola e genitori.
Al pari dei settori della piccola distribuzione, le scelte sulle aperture o chiusure delle scuole sono state fatte sempre e solo in funzione della priorità data al settore manifatturiero e più nello specifico alle esigenze di profitto a breve termine di cui esso si fa portatore.
La logica ordoliberista di cui è imbevuta la classe dirigente ha fatto sì che gli investimenti in personale, riduzione del numero di alunni per classe, acquisizione di edifici, chiesta a gran voce da genitori e insegnanti durante e dopo i due mesi di pandemia non fosse presa neanche lontanamente in considerazione.
Ciò avrebbe significato abbandonare un principio dogmatico su cui da anni la classe dirigente ha orientato le sue scelte di fondo.
Non potendo mettere in campo quelle politiche che sole avrebbero garantito la riapertura delle scuole in sicurezza il dibattito pubblico sulla scuola ha visto schierarsi due fronti opposti ognuno dei quali portava delle argomentazioni legittime per rivendicare le proprie posizioni.
Il fronte dei genitori, pur riconoscendo l’assenza degli investimenti dello Stato, si batteva per la riapertura delle scuole, nella consapevolezza delle difficoltà che avevano i padri e le madri, in quanto lavoratori, di gestire materialmente la scuola a distanza e gli impegni lavorativi. Questo fronte inoltre lamentava le profonde lacune che il prolungarsi dell’attività didattica a distanza produceva sui ragazzi sia in termini di apprendimento che di interazione sociale.
Il secondo fronte, composto dai lavoratori della scuola, ma anche dalle stesse famiglie degli studenti, riscontrando l’assoluta mancanza di investimenti, si preoccupava legittimamente del grave rischio che l’apertura delle scuole avrebbe comportato per la diffusione del virus.
Non trovando sbocco in un’azione sindacale generale che riunificasse le diverse istanze in un progetto di trasformazione radicale della scuola per garantire la presenza in sicurezza, il movimento della scuola si è trovato su due opposti fronti a seconda dell’urgenza dei bisogni di cui i diversi soggetti si trovavano portatori. La classe politica – espressione superficiale della classe dominante – ha avuto gioco facile a patteggiare ora per l’uno ora per l’altro, mettendo in campo una serie di operazioni subdole e apparentemente contraddittorie, volte a offuscare le menti dei soggetti interessati e ad alimentare la confusione generale e la lotta intestina tra lavoratori che nell’immediato si facevano portatori di diritti in apparente opposizione tra loro. Se per un verso la classe dominante ha implementato in tutte le forme possibili la didattica a distanza – stanziando più fondi di quanti ne stanziasse per il personale – dall’altro non si è posta alcun problema a mettere a repentaglio la vita di milioni di lavoratori e studenti decidendo di aprire le scuole senza garantire il rispetto delle benché minime norme di sicurezza. Le scelte di riapertura sono state fatte sempre in funzione delle aperture di fabbriche e attività produttive; nelle scuole secondarie, non essendo stato previsto alcun piano di messa in sicurezza, la parola d’ordine della riapertura è sempre stata usata dai governi in chiave puramente propagandistica scaricando sui lavoratori della scuola e sugli studenti il forte rischio che questa affermazione portava con sé.
Il governo Draghi, radicalizzando in maniera ancor più decisa l’approccio liberista sulla gestione della pandemia, ha proseguito nell’ottica folle di contenere gli organici, di alimentare il precariato nella scuola, quindi di mantenere le classi pollaio. La coscienza dell’evidenza di questa trascuratezza, di questo smaccato disinteresse, si sta allargando progressivamente in molti settori della scuola, anche in virtù della stanchezza e della sofferenza di molti lavoratori e studenti esasperati da questo snervante stato di precarietà. Una condizione di altalenanza che gli fa percepire sia l’insicurezza sia la mancanza di vitalità, di socialità reale, di profondità negli apprendimenti, che una scuola intesa solo ed esclusivamente come fattore di mera riproduzione della forza lavoro alienata inevitabilmente produce.
Riannodare la molteplicità dei disagi nell’ottica di una profonda, duratura e generalizzata battaglia per la riduzione degli alunni per classe rappresenta il principale fattore generalizzante del movimento della scuola, che ora, dopo aver sperimentato sulla propria pelle un anno di sofferenze, lavorando in condizioni di estrema difficoltà a causa del lassismo di una classe dirigente ideologica e inetta, può tentare di mettere a sintesi gli elementi che accomunano le diverse istanze. Far crescere il dibattito e la mobilitazione su questo argomento in tutte le scuole, alimentare la mobilitazione su questo punto centrale della politica scolastica rappresenta una contraddizione che, se messa in evidenza all’opinione pubblica, costituisce un potentissimo elemento di contraddizione per la classe dirigente. È anche per questa ragione che molti giornalisti, opinionisti etc. si tengono ben lontani, almeno per ora, dall’affrontare questo argomento quando discutono delle tematiche della scuola.