Ridurre le aliquote fiscali e costruire meccanismi atti a favorire i redditi elevati con benefici nulli per chi percepisce meno di 30mila euro annui, sono queste le decisioni del governo ribadite con l’ultima manovra di bilancio.
Ma nei giorni di fine anno, con l’opinione pubblica impaurita dall’aumento dei contagi e confusa da decreti discutibili e criticati anche dal comitato tecnico-scientifico del ministero della Salute (Cts), il governo ha rimosso il tetto agli stipendi dei dirigenti della pubblica amministrazione (Pa) con intervento repentino e una norma ad hoc inserita nella manovra di bilancio.
Da otto anni gli stipendi degli alti dirigenti nella Pa erano fermi al tetto di 240mila euro annui. Nel 2022 potranno crescere, in linea con gli altri stipendi, fino a quasi 250mila euro.
I prossimi contratti della Pa prevedono un aumento del 3,78% che tradotti in euro saranno ben poca cosa, soprattutto con incrementi irrisori del tabellare e il resto affidato alla giungla della contrattazione decentrata. La percentuale di incremento sarà a sua volta applicata anche agli stipendi dei grandi dirigenti rimuovendo quel tetto che speravamo fosse invalicabile.
Il concetto di giustizia del premier Draghi è ben lontano da una pur parziale idea distributiva: per lui, se si aumentano gli stipendi nella Pa (bloccati per quasi 10 anni fino al 2018), il criterio si dovrà applicare anche alla classe dirigenziale “in sofferenza”.
Rispetto a 40 anni fa gli stipendi dei superdirigenti della Pa sono cresciuti in misura maggiore dei rimanenti dipendenti pubblici, pur, sicuramente, meno dei rispetto ai loro colleghi nel privato i quali accedono anche a bonus legati agli andamenti dei titoli in Borsa beneficiando poi di generosissime buone uscite.
In alcuni paesi – Francia, Svizzera – la forbice salariale ha portato ricercatori e pezzi di sindacato a studiare la dinamica salariale. In Italia invece il problema non sembra essere particolarmente sentito e non ci meraviglia se guardiamo alla manovra fiscale del governo che tutela i redditi medio alti.
Perché riservare trattamenti di favore ai superdirigenti?
Se pensiamo alle retribuzioni medie del grosso dei dirigenti amministrativi le cifre sono decisamente più basse oscillando fra gli 80mila e i 95mila euro, non senza differenze a seconda dei comparti di appartenenza (ce ne sono 4 nella Pa). Se prendiamo i dirigenti di seconda fascia degli Enti pubblici non economici arriviamo a 127.606 euro , alle Agenzie fiscali siamo “fermi” a 111.453 euro, nell’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac) si attestano a 126.586 euro, nei servizi di “pubblica utilità” restano sotto 117mila euro annui.
Secondo l’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (Aran) – il soggetto che rappresenta la Pa nella contrattazione con i sindacati dei lavoratori – in una ricerca di pochi anni or sono, i dirigenti pubblici che superano 200mila euro annui di retribuzione sarebbero meno di 200 con forti sperequazioni esistenti in seno alla stessa dirigenza.
I dirigenti non amministrativi (presidi, medici, tecnici del servizio sanitario nazionale) sarebbero i più penalizzati con un tetto annuale attestato attorno a 63mila euro (dirigenti scolastici e dirigenti sanitari non medici). Il personale medico del servizio sanitario nazionale avrebbe salari inferiori a quelli dei dirigenti amministrativi (73.019 euro annui)
Se guardiamo i salari dei comuni mortali si evince che un infermiere, un medico o un insegnante in Italia guadagna almeno il 25% in meno di un collega di altri paesi della Ue. Eppure, nonostante questi dati, il governo ha guardato solo a rimuovere il tetto per i superdirigenti visto che la Pa si sta uniformando ai criteri della impresa privata e anzi pare sempre più in subordine ai suoi voleri come si evince dalle innumerevoli esternazioni del ministro Brunetta.
La dinamica salariale nella Pa è quindi destinata ad andamenti e “correttivi” tipici del privato. Cresceranno le disuguaglianze e la parte accessoria a discapito del tabellare rafforzando al contempo sanità e previdenza integrativa.
Questa tendenza si inserisce in un contesto in cui anche i redditi dei comuni mortali sono fortemente sperequati. Un lavoratore dipendente tra i 25 e i 29 anni nel 2020 ha guadagnato in media 14.400 euro lordi e un ventenne 9.300, contro i 27.900 del 55enne tipo. Siamo in presenza di una disguaglianza crescente tra vecchi e nuovi assunti accresciuta dalla natura precaria delle assunzioni riservata ai più giovani. E il divario è anche di genere perché secondo l’Inps gli uomini in media guadagnano annualmente 7mila euro l’anno in più rispetto alle donne costrette, loro malgrado, a optare per contratti part-time dovendo sostenere direttamente la cura di minori e anziani.
Quando si parla di rinnovi contrattuali dovremmo avere la capacità di guardare ai processi in atto. Non farlo è non solo un errore ma un vero e proprio crimine contro i dilaganti bassi salari nel mondo lavorativo pubblico e privato.