Negli anni liberisti si susseguirono narrazioni sulla precarietà del lavoro, la realtà stava cambiando e il lavoro stabilizzato dal contratto a tempo indeterminato dell’epoca fordista e neo keynesiana subiva un forte ridimensionamento con l’offensiva dell’interinale e della precarietà. Il contratto a tempo determinato divenne sempre più diffuso e ricorrente e al contempo, in Italia, aumentavano le partite Iva, non poche quelle fittizie a mascherare rapporti di subordinazione.
La critica dell’esistente rappresentò allora una forma di riflessione collettiva per cogliere i tratti salienti della trasformazione che subiva il diritto e la stessa composizione della forza lavoro. Da qui nasce la rinnovata attenzione verso il general intellect e la teorizzazione del lavoro autonomo di seconda generazione.
La nozione di lavoro nel corso del tempo ha subito profonde trasformazioni condizionata dai rapporti di forza tra capitale e lavoro e dai cambiamenti economici e climatici (oltre a quelli sociali). Molti si concentrarono sul capitale umano, focalizzando l’attenzione sui processi di mercificazione e deumanizzazione del lavoro derivanti dall’avvento delle nuove tecnologie. Pochi marxisti provarono a resistere ad una lettura prevalentemente sociologica studiando la metrica del lavoro e l’organizzazione produttiva, collegando precarizzazione e flessibilità ai cambiamenti interni al modo di produzione capitalistico. Lavori spesso mal retribuiti; un grande esercito industriale di riserva accresciuto dalla forza lavoro migrante impiegata in alcuni settori come agricoltura, logistica e nella cura alle persone in virtù dello smantellamento del welfare. Lo stato sociale italiano era stato costruito negli anni cinquanta del secolo scorso pensando a famiglie dove solitamente era l’uomo a lavorare mentre le donne erano o relegate ad attività part time per farsi carico, senza retribuzione alcuna, della cura di minori e anziani.
Con il massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro anche il nostro stato sociale avrebbe avuto bisogno di integrazioni che vennero invece rinviate per non scontentare la Chiesa cattolica, il terzo settore e il privato sociale ma anche e soprattutto per esigenze di bilancio. 30 anni fa iniziò la martellante campagna contro le pensioni e i diritti del lavoro, varie leggi previdenziali si sono succedute per innalzare l’età pensionistica affermando un sistema di calcolo contributivo che ha determinato la perdita del potere di acquisto salariale e pensionistico.
È di pochi giorni fa la notizia che a Luglio 2021 sono cresciuti i contratti stabili ma soprattutto a termine tra i giovani, i cosiddetti under 25, tuttavia il numero di impiegati complessivi risulta in costante diminuzione. La odierna crisi occupazionale riguarda soprattutto il lavoro autonomo e il variegato mondo dei servizi alle professioni; le stesse partite Iva da anni, dopo decenni di crescita, sono in costante diminuzione.
I dati Istat possono essere letti, come fa Confindustria, per giustificare il ripristino dei licenziamenti collettivi. Se a Luglio 2021 sono registrate 24 mila nuove assunzioni significa, sempre per i padroni, che si sta creando maggiore occupazione e quindi non avrebbe alcun senso “imporre” regole atte ad impedire i licenziamenti collettivi.
Pandemia e digitalizzazione hanno tuttavia cancellato migliaia di posti di lavoro e molti altri saranno cancellati proprio dal ripristino dei licenziamenti collettivi, da nuovi processi di esternalizzazione e delocalizzazione, dall’avvento della economia green.
La lenta erosione delle partite Iva è un dato di fatto ma la ritirata degli autonomi non è compensata dall’aumento complessivo degli occupati. Sempre più numerosi sono i lavoratori usciti dalla produzione per i quali il lento accompagnamento alla pensione attraverso gli ammortizzatori sociali diventa dirimente. Da qui la necessità di ripensare l’insieme degli ammortizzatori stessi. Occorrono misure di accompagnamento alla pensione e ammortizzatori in grado di favorire processi di formazione e riqualificazione non per il potenziamento di nuove tipologie lavorative all’insegna della precarietà, dei bassi salari.
È dirimente comprendere quali saranno i cambiamenti nel mondo del lavoro all’interno di questa ristrutturazione del modo di produzione capitalistico che con la pandemia ha ricevuto nuovo impulso. È innegabile la crisi del settore automobilistico dovuta anche alle difficoltà di reperire microchip senza dimenticare l’aumento vertiginoso dei costi delle materie prime. Per il settore finanziario si tratterebbe invece di crisi passeggera e non strutturale.
Stanno studiando nuovi ammortizzatori sociali e un modello di welfare diverso dal passato per assecondare i processi di riorganizzazione del capitale. Metteranno mano alle pensioni e alle stesse regole del lavoro, per farlo avevano bisogno di ripristinare i licenziamenti collettivi con l’assenso di un sindacato miope e subalterno, disposto a scambiare posti fissi con pochi mesi di ammortizzatori. Non si vuole capire invece che certi cambiamenti sono interni ai processi di riorganizzazione del capitale, questa incomprensione determina logiche perdenti come quelle concertative o di riduzione del danno.
Mentre i media alimentano una sterile contrapposizione tra fautori dei vaccini e no vax sono in corso processi di ristrutturazione complessi che necessitano di rivedere l’impianto del welfare e le stesse regole in materia di lavoro . Si va facendo strada il contratto ad personam, aumenti salariali diseguali e collegati alla spasmodica crescita della produttività, con sistemi di controllo asfissianti della forza lavoro. Niente di apocalittico forse ma cambiamenti profondi e radicali per affrontare i quali servirà anche un approccio sindacale diverso dal passato. La frammentazione delle vertenze e della forza lavoro, la classica divisione tra lavoro pubblico e privato, non sono più sufficienti a cogliere i processi in atto. E da qui scaturisce l’urgenza di aggiornare la nostra cassetta degli attrezzi per non subire la lotta di classe dei padroni e la loro offensiva.