La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto costituisce, per la sua valenza storica, uno dei punti centrali, nonché più controversi dell’intera opera di Karl Marx. È inoltre uno degli argomenti costanti degli studi di Marx per lo meno dal lontano manoscritto del 1857-58. L’analisi della legge della caduta tendenziale del saggio del profitto ha così seguito lo stesso sviluppo della critica dell’economia politica, nelle sue diverse elaborazioni. Dalla prima stesura nei Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica [2], è stata ripresa e ulteriormente sviluppata nel II e III volume delle Teorie sul plusvalore [3] e, infine, nella terza sezione del terzo libro de Il capitale [4], che diverrà l’oggetto specifico del prosieguo di questo studio.
L’esposizione della legge, almeno nelle sue linee generali, è rintracciabile a partire dai sopra citati Lineamenti. In tale opera si può leggere, ad esempio, è “chiaro che quanto più alto è lo sviluppo del capitale tanto più esso appare come ostacolo alla produzione, – e quindi anche al consumo – a prescindere dalle altre contraddizioni che lo fanno apparire come fastidiosa limitazione della produzione e del traffico” [5].
La legge è tuttavia più vecchia dell’opera di Marx e gli è sopravvissuta in forma alquanto mutata, perfino nella moderna teoria neoclassica. Non si tratta quindi di una bizzarra profezia marxiana, bensì costituisce un problema centrale dell’economia politica classica.
1. Le legge e il suo arcano
L’interesse di Marx al problema della caduta del saggio del profitto deriva, dunque, dall’analisi critica dell’economia politica classica e, in particolare, dallo studio della teoria economica di Ricardo [6], il quale aveva constatato che con il crescere della accumulazione si accompagnava, nel modo di produzione capitalistico, una naturale tendenza del profitto a decrescere. Per quanto riguarda la critica fatta da Marx ai vari tentativi compiuti dagli economisti classici per spiegare il funzionamento della legge, è utile riportare un passo collocato proprio in apertura della III sezione del terzo libro de Il capitale: “l’economia politica fin dai tempi di Adam Smith ha constatato l’esistenza del fenomeno e si è affaticata a spiegarlo in tentativi contraddittori” e, aggiunge Marx subito dopo, “la differenza fra le varie scuole da Smith in poi consiste nei diversi tentativi per giungere a tale soluzione”.
2. Il vano tentativo di individuare in un elemento allotrio la causa della caduta
Le critiche di Marx saranno rivolte proprio a quei contraddittori tentativi fatti dall’economia politica, che si “affaticava” nel vano sforzo di spiegare una legge propria al modo capitalistico di produzione con fattori a esso estranei. Il fallimento di questi tentativi non può, dunque, stupire Marx. L’insuccesso è imputabile al fatto che gli stessi economisti [borghesi] non erano stati in grado di formulare, se non a “tentoni”, la differenza nel capitale tra le sue componenti: variabile e costante. Ciò aveva comportato l’impossibilità di portare a termine “un’analisi esauriente delle differenze nella composizione organica del capitale” e, poiché gli economisti classici non erano riusciti a distinguere le categorie di plusvalore e profitto, ne risultava l’impossibilità di una formulazione conseguente dello stesso saggio generale del profitto.
Particolarmente interessante era stato il tentativo compiuto da Adam Smith di attribuire la tendenza a decrescere del saggio del profitto alla crescente concorrenza tra i diversi capitali. Tale pressione avrebbe costretto i singoli capitalisti ad aumentare sconsideratamente l’accumulazione, senza curarsi della corrispondente diminuzione del tasso generale del profitto.
Marx procede dialetticamente alla critica di questa tesi [7]. La formulazione di Smith è giudicata fondamentalmente corretta, in quanto è solo nella concorrenza che si realizzano le tendenze e le leggi immanenti al modo di produzione capitalistico, ma, al tempo stesso, il tentativo di spiegare le leggi concernenti il rapporto di capitale “semplicemente con la concorrenza, significa ammettere di non capirle” [8]. Per Marx, quindi, la concorrenza non poteva imporre al capitale leggi estranee al suo proprio funzionamento. In altri termini la concorrenza tra capitali può far decrescere il saggio di profitto, solo in quanto sia presupposta una tendenza alla caduta spiegabile in base alle leggi intrinseche allo stesso modo di produzione capitalistico. La concorrenza, così, può solo porre in atto, una tendenza insita in potenza, nello stesso rapporto di capitale. Occorre insistere su questo punto, perché oltre a costituire una costante dell’intero impianto logico-deduttivo di Marx, sarà centrale anche per la critica alla teoria della caduta del saggio sviluppata da Ricardo.
3. Non potendo risolvere l’arcano sul piano economico si cerca rifugio nella natura
A tal proposito, osserva a ragione Marx: “Ricardo, pur pretendendo di analizzare il saggio di profitto analizza in realtà solo il saggio di plusvalore e per di più limitatamente alla premessa che la giornata lavorativa sia una grandezza costante sia dal punto di vista dell’intensità che dell’estensione” [9]. Assunta tale considerazione come punto di partenza della critica a Ricardo, Marx, nelle Teorie sul plusvalore, sottolinea che per l’economista inglese: “la tendenza del profitto a cadere può essere spiegata solo per le medesime ragioni che condizioneranno una tendenza alla caduta nel saggio di plusvalore, cioè della parte della giornata che l’operaio lavora non per sé ma per il profitto” [10]. Considerando Riccardo la giornata lavorativa come una grandezza fissa, le ore di plusvalore di cui si appropriano i capitalisti possono decrescere solo in conseguenza di un aumento delle ore lavorative in cui il salariato riproduce il valore dei mezzi di sussistenza corrispondenti al salario percepito. Tuttavia, dato che, in seguito allo sviluppo delle forze produttive del lavoro, il valore delle merci prodotte dalla manifattura tende a diminuire costantemente, devono essere, quindi, i valori e dunque i prezzi dei beni salario prodotti dall’agricoltura, cioè la parte più consistente dei mezzi di sussistenza, a crescere progressivamente.
Ciò viene spiegato da Ricardo, in sostanziale accordo con Malthus, facendo riferimento alla teoria della decrescente fertilità naturale della terra, per la quale dovendo essere messi a coltura terreni sempre più marginali, per ottenere le quantità di cibo necessarie a sostenere i lavoratori addizionali, prodotti dall’allargamento della produzione, il valore delle merci così prodotte, sarebbe dovuto continuamente aumentare. Se ne deduce che, secondo Ricardo, “la continua caduta del profitto è congiunta all’aumento continuo nel saggio della rendita fondiaria” [11]. Tutto ciò si traduce in un progressivo aumento della parte della produzione sociale complessiva spesa in salari. Considerando, infine, che profitti e salari possono variare solo in relazione inversa, la redditività del capitale deve necessariamente decrescere.
La critica di Marx a queste tesi appare, sostanzialmente, speculare a quella rivolta ad A. Smith. La teoria di Ricardo, infatti, si serve, per spiegare una legge peculiare a un modo di produzione storicamente determinato, di un principio naturale. “Dall’economia egli si rifugia nella chimica organica” [12]. Un’analisi più approfondita, permetterà a Marx di fare emergere, che cosa in realtà si celava dietro queste “alchimie”!
4. Il fantasma della storicizzazione del capitalismo
“Quello che inquieta Ricardo è che il saggio di profitto, forza motrice della produzione capitalistica, condizione e stimolo al tempo stesso dell’accumulazione sia compromesso dallo sviluppo stesso della produzione” [13]. Si può leggere subito dopo: “ma vi è in realtà alla base del problema qualcosa di più profondo che egli appena sospetta. Viene qui dimostrato che la produzione capitalistica stessa è limitata e relativa: che essa non costituisce un modo di produzione assoluto, ma semplicemente storico, corrispondente ad una certa limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione” [14].
Marx è giunto così non solo a comprendere cosa impediva agli economisti borghesi di svelare il mistero della legge, ma al tempo stesso a individuare gli elementi che ne permetteranno la soluzione.
Note:
[1] Marx, Karl, Il capitale. Critica dell’economia politica [Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie], Editori Riuniti, Roma 1989, terzo libro, p. 261.
[2] Marx, K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie], in Marx-Engels Opere, vol. XXX, Editori Riuniti, Roma 1986.
[3] Marx, K., Teorie sul Plusvalore [Teorien über den Mehrwert], in Marx-Engels, Opere, vol. XXV, Editori Riuniti, Roma 1973.
[4] Id., Il capitale cit.
[5] Id., Lineamenti cit., vol. II, p. 462.
[6] Cfr. Il volume di Rosdolski, Roman, Genesi e struttura del “Capitale” di Marx, [Zur Entstehungsgeschichte des Marxschen “Kapital” 1968], Laterza, Roma 1975.
[7] Cfr. Marx, K., Teorie sul plusvalore cit., vol. II, pag. 479.
[8] Id., Lineamenti cit., vol. II, p. 464.
[9] Id., Il capitale cit., terzo libro, p. 293.
[10] Id., Teorie sul plusvalore cit., vol. II, p. 480.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] Id., Il capitale cit., terzo libro, p. 313.
[14] Ibidem.