Adam Smith a Mosca di Diego Zanetti [1] è un’analisi molto interessante per cercare di comprendere la Russia fuori dagli schemi tradizionali. Già dal titolo capiamo bene quale sia uno dei principali riferimenti teorici dell’autore, ovvero Giovanni Arrighi e il suo fortunato libro Adam Smith a Pechino, oggetto di un massiccio revival negli ultimi anni tra quanti si cimentano nello studio della realtà cinese.
Zanetti riprende pienamente la lettura fatta dall’economista milanese di Adam Smith e in particolare il concetto di “percorso di sviluppo” inteso come “ogni possibile modalità di organizzazione della struttura sociale” [2] che lega al concetto di sovranità, distinto in una “sovranità flessibile” e in una “sovranità rigida”.
Per chiarire meglio l’argomento, occorre distinguere nell’analisi di Arrighi lo sviluppo naturale e quello innaturale secondo l’economista scozzese:
“Le diverse caratteristiche presentate nei modelli di sviluppo orientale e occidentale sono state analizzate dalle rispettive nomenclature: sviluppo «naturale» e «innaturale». Lo sviluppo «naturale» è caratterizzato dalla decisione di investire nell’espansione del mercato interno. Queste risorse vengono utilizzate principalmente nel miglioramento agricolo per rifornire la popolazione (di solito grandi popolazioni come i cinesi). Il buon andamento dell’agricoltura si traduce nello sviluppo di attività manifatturiere che, a loro volta, devono essere ad alta intensità di manodopera. L’interesse per il commercio estero deve riflettere l’espansione agricola e industriale, o meglio, in caso di eccedenza nel mercato interno. Lo sviluppo «innaturale», invece, è definito dallo sviluppo economico realizzato attraverso guadagni di produttività attraverso il miglioramento tecnologico in tutte le sfere del mercato, cioè sia nella dimensione produttiva che a livello organizzativo. In questo senso, l’enfasi delle attività economiche è sull’uso intensivo delle risorse non umane a scapito delle risorse umane. Inoltre, l’obiettivo della crescita è espandere il commercio estero. Questa tipologia di «sviluppo» di solito caratterizza lo stile di crescita occidentale.” [3]
Secondo Zanetti, il percorso di sviluppo scelto dipende fortemente dalle modalità d’intervento dello Stato e quindi dalla tipologia di sovranità che esercita. Senza alcun intervento statale, il conflitto tra capitale e lavoro tende ad essere favorevole al primo mentre se “il conflitto viene gestito dallo Stato, gli esiti possibili saranno diametralmente opposti tra loro: una gestione statale del conflitto che risulti favorevole alle imprese si risolverebbe in maniere non dissimile dall’assenza totale di coinvolgimento dello Stato; al contrario, una gestione favorevole alla manodopera porterebbe allo scioglimento degli eventuali cartelli delle imprese ed a concessioni più ampie alla manodopera. Nella concezione di Smith, quindi, l’esistenza di una forte autorità statale è l’esatto motivo per cui è possibile garantire una vita dignitosa ai lavoratori e l’uguaglianza economica tra le classi sociali pur nelle condizioni di un’economia di mercato.” [4]
Questa citazione dal libro chiarisce il significato di “sovranità flessibile”, cioè l’assenza di intervento dello Stato sul mercato. Mentre per “sovranità rigida” si intende una regolamentazione pubblica del mercato che può favorire il capitale o il lavoro, anche se l’autore preferisce parlare di manodopera.
Nel primo caso si ha il liberalismo, nel secondo, ovvero una “sovranità rigida” che favorisce il capitale, il nazionalismo e nel terzo il “laburismo”, quando la sovranità è a difesa dei lavoratori.
Zanetti non si limita a definire il percorso di sviluppo in base alla tipologia di sovranità ma anche ad altri elementi come il rapporto dello Stato con il diritto internazionale, con le organizzazioni internazionali, la forma di governo, il potere e le sue fonti, la distribuzione del potere tra le nazioni e il modello economico adottato.
Da questo livello di maggiore astrazione, si scende a un livello più concreto dove l’autore analizzerà la politica estera ed economica della Russia per dimostrare che il paese guidato da più di vent’anni da Putin non segue il modello di sviluppo occidentale ma quello che ha chiamato “laburismo”.
Per Zanetti, la Russia rispetta il principio di non-ingerenza in politica estera, non volendo mai risolvere con la forza dei contenziosi a proprio favore ma intervenendo solo su esplicita richiesta di altri governi e per tutelare il diritto dei popoli all’autodeterminazione, come accaduto in Siria o in Crimea. Questo serve da pezza d’appoggio per dimostrare che in politica estera il governo di Putin adotta non una postura nazionalista ma “pragmatica” e non ideologica. Il patriottismo del putinismo è rivolto verso l’interno e non verso l’esterno, diversamente dai paesi che seguono un percorso di sviluppo capitalistico.
Questo si riflette anche nella scelta di non aderire mai ad organizzazioni internazionali che erodono la sovranità della Russia o di altre nazioni che ne fanno parte e nella ferma volontà, in politica interna, di preservare e consolidare la propria autorità e quella di qualsiasi altro governo, al di là dell’ideologia seguita, contro chiunque miri a rovesciarne il potere.
L’analisi della politica estera di Putin si chiude con una riflessione sul suo atteggiamento critico dell’unipolarismo che porta con sé la morte del diritto internazionale. Zanetti sostiene che la Russia, favorendo un mondo con più poli di potere, il famoso multipolarismo, contribuisca ad equilibrare la distribuzione di potere tra gli Stati, rafforzandone la sovranità, specie nel Sud del mondo.
Il libro si chiude con l’analisi della politica economica della Russia. Il primo decennio dell’era Putin è stato contraddistinto da una crescita economica impetuosa, da una massiccia riduzione della povertà e dall’aumento della classe media. Fino al 2011 circa, l’aspetto del rinnovamento dell’esercito era posto in secondo piano rispetto al recupero di una situazione disastrosa ereditata dagli anni ’90 della shock therapy di Eltsin. L’autore afferma che tra il 2000 e il 2008 gli stipendi sono aumentati del 15% a fronte di una crescita del Pil del 7% e nei periodi di contrazione, i lavoratori ne hanno subito le conseguenze in minima parte rispetto ad altri paesi. Questo per confermare la tesi secondo cui, con il modello “laburista”, la crescita economica è orientata più alla redistribuzione della ricchezza prodotta rispetto all’accumulazione in sé.
Con Putin si assiste anche ad una inversione di tendenza rispetto al suo predecessore per quanto riguarda le privatizzazioni delle imprese statali. Sotto il controllo diretto e indiretto dello Stato ricadono le imprese operanti nei settori considerati strategici, come il petrolio e l’energia. Queste aziende sono circa il 70% del PIL russo e sono soggette ad un alto livello di imposte sul valore aggiunto rispetto alle piccole e medie imprese che costituiscono il restante 30% del Pil russo.
Questo perché le imprese pubbliche operano da monopoliste nel proprio segmento di mercato mentre le piccole e medie imprese operano in un mercato altamente competitivo che serve a livellare verso il basso il tasso di profitto. Un livello di imposte sul loro valore aggiunto inferiore rispetto a quelle delle imprese pubbliche, da cui lo Stato ottiene importanti risorse per finanziare il welfare state, è funzionale alla nascita di nuove imprese che occuperanno nuovi lavoratori.
Questo è esattamente il modo in cui il mercato dovrebbe funzionare secondo Smith, cioè facendo competere tra loro le imprese, non i lavoratori, per comprimere i loro tassi di profitto. E questo dovrebbe tradursi nella volontà dello Stato di privilegiare investimenti ad alta intensità di manodopera, come la manifattura o l’agricoltura, rispetto a quelli ad alta intensità di capitale.
Tuttavia questo è vero solo in parte in Russia poiché le attività del primo tipo si sono sviluppate solamente come conseguenza delle sanzioni economiche europee, cioè uno shock esogeno, e non grazie ad un preciso piano industriale del governo russo.
Da quest’ultimo punto inizio a muovere delle critiche al lavoro di Zanetti. Al libro manca una solida analisi della storia russa che avrebbe sicuramente aiutato ad inquadrare meglio le dinamiche di lungo periodo dell’economia del paese e la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro e nelle gerarchie della globalizzazione. Il processo di integrazione dell’Urss nell’economia mondiale accelera negli anni ’70, quando gli alti prezzi del petrolio trasformano il paese in un mercato di materie prime per l’Occidente, come dimostrano gli accordi di compensazione con i nemici capitalisti che scambiano il petrolio e il gas sovietico con crediti e tecnologia per estrarre queste risorse (essendo investimenti ad alta intensità di capitali). L’integrazione con il mercato mondiale ha accentuato le sproporzioni dell’economia sovietica e con la transizione al libero mercato e il successivo processo di deindustrializzazione del paese, gas e petrolio sono rimaste le principali fonti di profitto per la classe dirigente russa. Cosa che nota anche Zanetti ma non ne trae le adeguate conclusioni. La Russia quindi è a tutti gli effetti un impero periferico totalmente incapace, ad oggi, di scalare le gerarchie della globalizzazione.
Piuttosto che parlare di sviluppo non capitalistico, una totale assurdità in presenza di elementi come il mercato, il lavoro salariato, la forma impresa, mi concentrerei sul modello di capitalismo adottato oggi dalla Russia.
Putin ha realizzato le ambizioni dei militari che tentarono contro Gorbaciov il cosiddetto “Putsch di agosto”, come afferma in maniera convincente Yurii Colombo nel suo libro Urss, un’ambigua utopia [5], cioè un modello di modernizzazione autoritario e centralizzato simile a quello cinese ma da una posizione periferica nell’economia mondiale.
La tesi politica che invece traspare dal libro è quella sostenuta da una lettura socialdemocratica classica della globalizzazione, ovvero, solo nello spazio dello Stato nazionale è possibile fare una politica democratica a favore dei lavoratori. Ritengo questo tipo di analisi concentrate troppo sui risultati della globalizzazione e meno sulle cause, ovvero una lotta vittoriosa dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo che ha costretto il capitale ad una profonda modificazione.
Chi sostiene la prima tesi non è in grado di assumere le dinamiche della globalizzazione all’interno del rapporto di capitale, ponendosi fuori dal discorso marxiano.
Note:
[1] Diego Zanetti, Adam Smith a Mosca, Asterios, Trieste 2021.
[2] Ivi, p. 39.
[3] Tre tesi sullo sviluppo cinese, Bollettino Culturale, luglio 2021, https://bollettinoculturale.blogspot.com/2021/07/tre-tesi-sullo-sviluppo-economico-cinese.html
[4] D. Zanetti, op. cit. p.50.
[5] Y. Colombo, Urss, un’ambigua utopia. Cause e conseguenze del crollo dell’impero sovietico, Massari Editore, 2021.