Dopo l’incontro fra Draghi e Berlusconi, è armistizio fra i fratelli coltelli rappresentati da diversi settori del capitalismo italiano. La pace temporanea non poteva che essere su una piattaforma di destra.
Infatti la destra moderata (si fa per dire), incarnata nell’anziano leader di Forza Italia; la destra populista e xenofoba interna al governo, personificata nell’uomo in felpa; e pure la destra populista di finta opposizione, non meno xenofoba e fascistella (degnamente rappresentata da una leader dettasi incapace di individuare l’appartenenza politica degli assalitori della Cgil), da tempo invocavano il taglio delle tasse e soprattutto nessuna imposta patrimoniale. E così fu.
Nella settimana scorsa, difatti, il governo ha licenziato il documento programmatico di bilancio (Dpb) che recepisce, direi molto volentieri, queste richieste. Noi abbiamo già ripetutamente sostenuto che il taglio delle tasse non è cosa di sinistra. Infatti, quando ci sono persone che navigano nell’oro e posseggono numerosissimi immobili, spesso per uso personale di lusso, e persone che non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena e non hanno un alloggio decente; quando lo Stato, per non indebitarsi troppo, taglia la spesa sanitaria, fa studiare i ragazzi in classi sovraffollate (le cosiddette classi pollaio), allunga di anno in anno l’età pensionabile e così via, una bella imposta sui grandi patrimoni sarebbe un fatto di giustizia sociale, che ovviamente non andrebbe giù alla destra, neppure a quella della grande finanza di cui Draghi è autorevolissimo esponente. Quindi taglio delle tasse e niente patrimoniale!
Nel documento governativo la manovra è delineata solo vagamente. Ecco alcuni elementi che balzano agli occhi.
Riguardo all’analisi macroeconomica, dopo il rimbalzo del Pil di quest’anno e, in misura assai minore del prossimo, che comunque non consentirà di raggiungere i livelli pre-pandemia, si prevede il rialzo dell’inflazione. Che si sia nuovamente in vista della stagflazione di mezzo secolo fa? Il tutto al netto di una possibile recrudescenza della pandemia che ci farebbe arretrare ancora di più.
Vengono spostati dal primo al secondo triennio la maggior parte degli interventi del Pnrr, che quindi si qualifica come un vero e proprio programma a medio termine, direi uno strumento della lotta di classe dei padroni contro i lavoratori, e non un programma emergenziale, come vorrebbero farci credere.
Dopo l’emergenza rientra in auge l’abbattimento del debito previsto dal fiscal compact, sia pure in forma diluita che però obbliga a ingenti quote annue di rientro, e quindi avanzi di bilancio e livelli di austerità superiori perfino al recente passato: “Nel medio termine sarà altresì necessario conseguire adeguati surplus di bilancio primario. A tal fine, si punterà a moderare la dinamica della spesa pubblica corrente”. Chiaro?
Infatti già dal 2023 si prevedono avanzi primari, anche se inizialmente in misura moderata (0,3 nel ’23 e 0,5 nel ’24, ma il bello verrà dopo). Leggiamo ancora: “A partire dal 2024, la politica di bilancio mirerà a ridurre il deficit strutturale e a ricondurre il rapporto debito/Pil intorno al livello pre-crisi entro il 2030”.
Il maggior gettito derivante dal previsto aumento del Pil non viene impiegato per rafforzare il welfare, potenziare i trasporti pubblici ecc., ma per ridurre il carico fiscale in favore della classe media. In particolare si vuole intervenire riducendo l’imposizione (non è chiaro in che misura) sullo scaglione di reddito che va dai 28 ai 55mila euro annui, attualmente tassato con un’imposta del 38%. Si tratta di una misura elettoralistica perché va a interessare i redditi medi e medio-bassi, probabilmente il settore popolare che porta più voti. Nessun abbattimento per i poveracci che guadagnano molto di meno e che sono in grandissime difficoltà, ma probabilmente questi ormai non votano più. Si dice che c’è un gradino troppo alto (+11%) fra questo e lo scaglione precedente, colpito con il 27%, mentre poca è la distanza dallo scaglione successivo, che paga un 41%. Si dimentica però di dire che il misero 3% di differenza è dovuto all’abbassamento delle aliquote per i grandi redditi che raggiungono l’aliquota massima del 43% (era del 72% nel 1971!) per i redditi da 75 mila euro a infinito. Si omette anche che originariamente lo scaglione più basso pagava solo il 10%, mentre ora il 23%. È quindi evidente che c’è stata una redistribuzione del reddito in favore dei ricchi, ma di questa ingiustizia i difensori del popolo di destra non parlano e il governo si guarda bene dal porvi rimedio.
Si prevede un graduale superamento dell’Irap. Questa imposta serve essenzialmente al finanziamento della sanità regionale. Si dice, è vero, che a fronte della graduale dismissione si assicureranno alle regioni adeguati finanziamenti, ma, venendo meno un gettito automatico, chi garantisce che a fronte della necessità di rientrare col debito, questi fondi non vengano in futuro ridimensionati?
Altre misura annunciata è l’ennesimo taglio del cuneo fiscale. A questo riguardo mi limito a rimandare al lucido commento che che ha scritto per il QuotidianoWeb il nostro collaboratore Stefano Paterna.
Verrà eliminata quota 100 e ridotta l’incidenza della spesa previdenziale.
Gli investimenti saranno prevalentemente a sostegno delle imprese: “Per sostenere gli investimenti pubblici e privati la legge di Bilancio rifinanzia i fondi per gli investimenti dello Stato e delle amministrazioni locali e proroga gli incentivi all’efficientamento energetico degli edifici e per le ristrutturazioni edilizie […] vengono prorogati incentivi fiscali collegati a Transizione 4.0 ed il contributo a favore delle Pmi per l’acquisto di beni strumentali (c.d. nuova Sabatini). Sono, inoltre, previste risorse aggiuntive per il fondo per l’internazionalizzazione delle imprese ed il fondo di garanzia per le Pmi”.
Vengono invece riformati in peggio gli ammortizzatori sociali (dotazione ridotta del 33%, da 4,5 a 3 miliardi!).
Si conferma l’allentamento delle regole dei lavori pubblici: “L’opera di semplificazione investe anche il settore degli appalti pubblici e incide sulle barriere autorizzatorie e procedurali che frenano l’attuazione dei progetti, mettendo a rischio la realizzabilità delle opere”. Meglio mettere a rischio il territorio, la salute pubblica e la sicurezza dei lavoratori. A fronte di questa deregulation non vi sono stanziamenti aggiuntivi per il controllo ispettivo dei luoghi di lavoro.
I piani urbanistici diventano carta straccia: “per le Zone Economiche Speciali [...] è introdotta anche un’autorizzazione unica, che può derogare agli strumenti urbanistici e di pianificazione territoriale”.
Non ci voleva la scienza di Draghi per una manovra simile, non diversa dalle precedenti. Ma forse ci voleva la sua autorevolezza presso i palazzi della politica e della finanza per imporla a tutto lo schieramento politico.
I motivi per una forte opposizione a questo governo non mancano.