“Perché pensano che uccidendolo avrebbe cessato di esistere come combattente? Oggi è in ogni luogo, ovunque ci sia una giusta causa da difendere. Il suo marchio indelebile è ormai nella storia, e il suo sguardo luminoso di un profeta è diventato un simbolo per tutti i poveri di questo mondo”
Dal discorso di Fidel Castro del 17 ottobre 1997 in occasione del ritorno delle spoglie del Che a Cuba.
POESIA PER IL CHE.
Eravamo giovani Ernesto
tu allora percorrevi la Cordigliera
sulla tua moto proletaria
io respiravo il mio Appennino
a piedi o in bicicletta
appoggiati entrambi a mille sguardi
aggrappati ai sogni diffusi nel sangue.
L’aria era pura allora
le stelle un prato
disteso in mezzo al cielo
non avevamo rimorsi
solo un orizzonte che spaziava lontano
un sorriso che baciava la terra.
E la terra, che ci rispondeva
con lo sguardo degli uomini,
era un villaggio di operai chini sul tornio
di campesinos che respiravano
il profumo del grano
di madri affacciate alle finestre
di ragazzi che giocavano in strada.
E noi eravamo in mezzo a loro
come bandiere agitate dal vento
come alberi dentro a una foresta
gocce d’acqua nella corrente di un fiume
capace di portare con sé le voci
che si levano da ogni angolo di mondo
per chiedere giustizia e reclamare
la gioia e la bellezza nascoste
nelle pieghe dei giorni.
Così, quando mi dissero che eri morto
non volevo credere a quel destino
perché ti vedevo immortale
eri un Titano partorito dalla Terra
un Gigante con cento cuori
un fiume divino che scorre inarrestabile.
Se tu fossi vissuto al tempo degli dèi e degli eroi
qualcuno ti avrebbe trasformato in stella
così, timone e sestante celeste a tutti i popoli
ti saresti assiso di fianco a Orione
o avresti abbracciato Sirio vagabonda.
Ma tu non l’avresti accettato,
non eri fatto per le polverose stanze
come per il notturno cielo.
Avresti chiesto di essere riportato sulla terra
in mezzo alle strade ove le madri piangono
perché lì soltanto dovevi vivere e morire.
E così è stato:
hai ripreso a scorrere nel nostro sangue
portando il seme della speranza
e del riscatto dentro i nostri sogni.
Dobbiamo ringraziare anche te
se ancora crediamo possibile
quello che, con l’inganno
dipinto nel cuore
si affannano a chiamare utopia,
se il faticoso sentiero che si fa luce
il grido salito dalla terra che ci nutre
di un destino finalmente voluto
ci accompagna il cammino.
Tu, come Cristo
scolpito nella storia dell’uomo
che cerca la sua liberazione.
Diverso da lui perché vi separano
duemila anni di storia,
un altro ambiente ti ha forgiato
hai respirato nuove risposte
ai misteri di sempre
che ti hanno dipinto con altri colori
la terra ed il cielo.
Di lui lo stesso fascino
la stessa ribellione nel cuore
gli stessi banchi rovesciati nel tempio
il donarsi che guarda
solo alla verità e alla giustizia
cancellando se stesso
dalla mappa del mondo.
Ma tu non sei un dio,
così come Lenin non fu “capo per grazia divina”
il tuo Olimpo non si nutre d’ambrosia
ma si sazia alla mensa del povero
alle panetterie planetarie di Pablo.
Non hai angeli a sorreggerti
e pure conforti i nostri giorni
sgomenti a tanta ingiustizia
atterriti dalla fame
dall’esclusione e dal martirio,
lo stesso che è legato al tuo nome
al tuo corpo inerte.
La tua croce fu una tavola di legno
scolpita nel ricordo che mai non muore
legata a un destino che non teme il domani
ma attende paziente una luce
trasportata da un nuovo sole
dentro le rivolte del mondo.