Un errore molto grave dei partiti operai è, dal punto di vista marxiano, quello di arrestarsi, di accontentarsi del piano della rappresentazione, sia dal punto di vista politico – riponendo un’ingenua fiducia nella presunta neutralità dello Stato e del diritto – sia sul piano sociale in cui si confida nelle doti taumaturgiche del libero mercato. In quest’ultimo caso oltre a dare credito alla presunta realizzazione nel piano dello scambio della libertà e dell’eguaglianza delle dramatis personae in esso impegnate si finisce per credere possibile l’emancipazione sociale mediante un intervento dello Stato a livello redistributivo. In tal modo, secondo Karl Marx, non solo non si mettono in discussione i rapporti di produzione, finendo per accettare come naturale la schiavitù del lavoro salariato, ma non si comprende che la distribuzione riproduce le condizioni della produzione, ovvero il suo presupposto decisivo: la separazione di lavoro morto e lavoro vivo, delle condizioni oggettive della produzione poste nelle mani della borghesia e delle condizioni soggettive, unica proprietà dei salariati. Solo socializzando le condizioni oggettive della produzione sarebbe possibile, secondo Marx, improntare anche la sfera della distribuzione a una reale libertà ed eguaglianza, oltre che a un effettivo godimento del diritto individuale alla proprietà.
Dovendo stendere le linee programmatiche per la prima Internazionale, Marx arriva a lamentarsi con Friedrich Engels di esser stato costretto a “inserire nel preamble degli statuti due frasi su ‘duty’ e su ‘truth, morality and justice’, ma queste frasi sono collegate in modo tale che non possono recare nessun danno” [1]. Del resto Marx riteneva: “pensavo che ne avessimo avuto abbastanza del 1848 come del 1849, per convincerci che un movimento popolare è morto nel momento stesso in cui cede il suo impeto rivoluzionario in cambio di una rappresentanza popolare costituente” [2]. La sconfitta della rivoluzione del 1848 e l’atteggiamento pusillanime della socialdemocrazia durante le seguenti guerre civili in Francia fino alla sconfitta definitiva del 18 Brumaio, rafforzano in Marx l’esigenza di battersi per l’autonomia politica, organizzativa e culturale del movimento operaio.
Per altro la piena conquista della democrazia politica, con le rivoluzioni del 1848-49, non poteva che porre all’ordine del giorno la questione dell’emancipazione sociale ed economica. Ma di fronte a essa, con la scusa della difesa delle istituzioni democratiche, la piccola borghesia aveva finito per fare fronte comune con la grande borghesia liberale contro le lotte sociali, come si era visto chiaramente con la rivoluzione del giugno 1848 in Francia. Una volta che le masse popolari urbane erano state sconfitte, di fronte all’aperta reazione del partito dell’ordine, la piccola borghesia si era trovata isolata e non aveva dimostrato neppure la determinazione necessaria a difende l’emancipazione politica democratica cui aveva sacrificato la sociale, lasciando campo libero al colpo di Stato di Luigi Bonaparte.
Inoltre le illusioni nel suffragio universale erano destinate a venir meno, dal punto di vista marxiano, sia perché in caso di affermazione di forze radicali il potere legislativo veniva depotenziato dall’esecutivo e dagli apparati non elettivi dello Stato, sia perché i ceti possidenti non si erano fatti scrupoli di rinnegare la forma di dominio politico da essi approntata, quando non si dimostrava più funzionale al suo fine: la difesa, anzi il rafforzamento dei rapporti di proprietà esistenti nella società civile. Inoltre il suffragio universale non garantiva affatto l’affermarsi delle posizioni politiche rappresentative della maggioranza del paese, dal momento che il potere reale sulle strutture dello stato, la disponibilità economica, il controllo pressoché totale dei mezzi di comunicazione rendevano estremamente difficile l’affermazione parlamentare degli interessi degli sfruttati. Infine, l’affermarsi di una forma di dominio politico maggiormente confacente allo sviluppo in senso imperialista del capitalismo rendeva pressoché impossibile un mutamento dall’interno di questa forma statuale. Perciò proprio dalla riflessione sul 18 Brumaio di Luigi Bonaparte nascerà l’elaborazione marxiana sulla dittatura del proletariato, forma adeguata a difendere e sviluppare l’emancipazione sociale ed economica innescata dalla socializzazione dei grandi mezzi di produzione mediante la rottura con le forme politiche volte alla loro preservazione nelle mani dei privati.
Per altro la tanto idolatrata Costituzione non può che riprodurre, da un punto di vista marxista, l’egemonia politica delle classi che la hanno conquistata, spesso mediante un processo rivoluzionario, a sua volta condizionato dai rapporti di forza nella società civile. Essa è garanzia che le posizioni conquistate attraverso il conflitto di classe, ovvero che determinati rapporti di proprietà non siano alla mercé dei diversi governi eletti a suffragio universale, a meno che le forze sociali che li sostengono non saranno in grado di sviluppare, con le lotte, rapporti di forza tali da rimetterli in discussione.
Perciò Marx si scaglia, inoltre, contro le “fandonie ideologiche di carattere giuridico” del programma di Gotha. Come si è visto nella maggior parte delle sue riflessioni i diritti umani, la democrazia, sono considerate sovrastrutture proprio del modo di produzione borghese che non possono essere slegate dalla dura realtà di questo sistema che, nel suo declino, rischia di trascinare l’intera umanità in una nuova barbarie. Del resto, dal punto di vista del materialismo storico, se vi fossero diritti umani in quanto tali, essi sarebbero al di là di ogni divisione della società in classi e sarebbero indipendenti dalla volontà di uno o più popoli storici.
Il che non significa che Marx intenda rigettare quale mera copertura ideologica del dominio della borghesia i diritti umani, in particolare nella loro declinazione di diritti del cittadino. Tuttavia l’emancipazione politica è il massimo risultato raggiungibile all’interno dell’attuale sviluppo storico-sociale, ovvero all’interno del modo di produzione capitalista. Così uguaglianza e libertà sancite dalla Costituzione sono delle astrazioni dell’intelletto, in quanto si definiscono solo in relazione contraddittoria con le differenze reali della società civile, ovvero con le concrete diseguaglianze sociali ed economiche. La particolarità, le differenze della burgerlische Gesellschaft, della società civile borghese, negate solo astrattamente dallo Stato, sono in realtà riconosciute come necessarie al suo porsi in opposizione a esse.
Da qui Marx ne deduce la necessità della rivoluzione, contro le illusioni idealistiche (hegeliane) di uno Stato capace di domare gli spiriti animali della società civile, o le illusioni democratiche piccolo-borghesi (lassalliane) di realizzare l’emancipazione sociale mediante la via parlamentare, grazie al suffragio universale. Di contro a tali illusioni osserva Marx: “a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale” [3].
Un profondo rivolgimento politico-sociale sarà, tuttavia, ostacolato da una forma statale improntata a un progetto politico-sociale differente e da un apparato burocratico generalmente improntato alla difesa delle prebende ricevute sulla base del precedente equilibrio sociale. Per tale motivo, in determinate condizioni, risulterà più “economico” dal punto di vista marxiano rompere con il precedente ordine costituito per meglio edificare il nuovo, espressione di mutati rapporti di forza sociali.
Del resto, l’involuzione della democrazia rappresentativa mediante il rafforzamento del potere esecutivo e degli apparati non elettivi dello Stato – che corrisponde alla necessità della classe borghese di difendere i propri interessi particolari sacrificando sempre più, con l’aumento della crisi e la polarizzazione sociale, le proprie vesti universaliste – determina la necessità per le classi oppresse di superare lo Stato borghese. I mezzi approntati nella lotta della borghesia per interposta persona contro il regime feudale, durante l’assolutismo, sono potenziati dalla borghesia al potere e resi funzionali al suo dominio di classe contro il proletariato. Per tale motivo il proletariato per Marx: “non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini” [4], ma deve spezzare la macchina sistematica ed organica del potere statale centralizzato della borghesia. Dunque, come osserva a ragione a tal proposito Eustache Kouvélakis: “si tratta di distruggere lo Stato in quanto macchina specializzata, centralizzata e strettamente gerarchizzata. Una macchina separata da qualsiasi controllo popolare che si erige, perciò, a istanza trascendente e che si ‘vuole indipendente dalla nazione stessa, e ad essa superiore’, mentre è soltanto ‘mezzo di asservimento del lavoro al capitale’” [5]. Stanti i limiti di classe dei diritti umani borghesi, che gli impediscono di assurgere all’universalità, Marx considera impossibile una reale emancipazione umana senza rompere la struttura sociale “e senza al tempo stesso sconvolgere l’intera sovrastruttura dello Stato fondato su una così triste base sociale” [6]. Marx non intende rinunciare, sino alla Comune di Parigi, alla centralizzazione statale giacobina, ma essa deve edificarsi “sulle rovine della macchina statale militare e burocratica che è stata forgiata nella lotta contro il feudalesimo” [7].
Note:
[1] Karl Marx lettera a Friedrich Engels del 4 novembre 1864 a proposito dell’Indirizzo inaugurale e statuti provvisori dell’Associazione internazionale degli operai da lui stesi, cit. in Marx ed Engels Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 752.
[2] K. Marx - F. Engels, Opere complete agosto 1858- febbraio 1860, tr. it. L. Formigari, vol. XVI, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 416. Ecco come Marx descrive quella che considera la farsa della Costituzione della Prussia nel corso della Rivoluzione del 1848: “in un messaggio a ciò inteso, [il re di Prussia] propose una sequela di emendamenti ch’egli non poteva neppure supporre che le Camere sarebbero state umanamente capaci d’ingoiare. E invece le ingoiarono, e anche con buona grazia. Così non restava al re se non di farla finita e proclamare la Costituzione. Lo stesso atto del giuramento ebbe il sapore di farsa delle operazioni con cui la Costituzione era stata varata: il re l’accettava, a condizione che ‘gli risultasse possibile governare con essa’, e le Camere accettavano quest’ambigua dichiarazione come fosse un giuramento, e un impegno preso con tutte le regole: e il grosso del popolo, intanto, si disinteressava del tutto dell’intera faccenda” ivi, p. 71.
[3] K. Marx, Per la critica dell'economia politica [1859], Editori Riuniti, Roma 19693, p. 5.
[4] Id., La guerra civile in Francia, in Marx ed Engels, Opere scelte, cit., pp. 905-06.
[5] Eustache Kouvélakis,“Marx e la critica della politica”,in Marcello Musto [a cura di], Sulle tracce di un fantasma. L'opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, p. 204.
[6] K. Marx - F. Engels, Opere complete…, op.cit., p. 56.
[7] K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, tr. it. di P. Togliatti, Ed. Riuniti, Roma 1991, p. 152.