Fra i grandi meriti di Domenico Losurdo vi è certamente quello di aver fatto emergere tutti i limiti utopistici dei primi abortiti tentativi di transizione al socialismo e di aver riportato l’attenzione, più in generale, sul ruolo nefasto giocato dal messianismo anarcoide nei processi rivoluzionari. Al fondamento filosofico di questa forma di opportunismo di sinistra vi è l’esaltato universalismo che generalmente presiede all’abbattimento dell’ancien régime. Tale astratto universalismo fa apparire persino ogni necessaria divisione del lavoro come se fosse una forma di sequestro dell’autocoscienza universale e della volontà generale a opera di una minoranza di burocrati privilegiati. Come denuncia a questo proposito lo stesso Vladimir I. U. Lenin, in tal modo “si è creato uno stato d’animo di esasperazione e di irritazione confusa; e se a questo si aggiunge la politica di provocazione dei lacchè della borghesia (menscevichi, socialisti-rivoluzionari di destra, ecc.), sarà assai facile capire quali sforzi tenaci e perseveranti debbano compiere gli operai e i contadini migliori e più coscienti per creare una svolta radicale nello stato d’animo della massa e farla passare a un lavoro regolare, continuo e disciplinato” [1].
In tal modo, tanto per quanto concerne i rapporti sociali quanto per le istituzioni politiche sembra non esserci un ordinamento politico che possa soddisfare l’assurda pretesa di una realizzazione diretta e priva di mediazioni dell’universalità, avanzata dal messianismo anarcoide che tende a dominare nelle prime rivoluzioni socialiste. Il modo in cui si atteggia il messianismo anarcoide risulta con chiarezza nelle pagine della Fenomenologia dello spirito, a cui giustamente rinvia Losurdo. È un processo e una dialettica che Hegel analizza con grande lucidità e profondità in relazione alla Rivoluzione francese. Essa si sviluppa agitando la bandiera del “soggetto universale”, della “volontà generale”, dell’“autocoscienza universale”. In questo momento, nel momento della distruzione dell’ancien régime, si assiste all’“annullamento delle masse spirituali differenziate e della vita limitata degli individui”; “sono quindi aboliti tutti gli strati sociali, che sono le essenze spirituali nei quali il Tutto si articola”.
È come se la società, dissoltisi tutti i corpi sociali intermedi, si fosse completamente disarticolata in una miriade di individui i quali – rigettando tutte le autorità tradizionali ormai prive di legittimità – rivendicano non solo la libertà e l’uguaglianza, ma anche la partecipazione alla vita pubblica e a ogni fase del processo decisionale. Sull’onda di questo entusiasmo e di questa esaltazione, in una situazione in cui è come se l’autorità e il potere in quanto tali fossero sospesi nel nulla, emerge un messianismo anarcoide, che esige la “assoluta libertà” e che è pronto a denunciare come tradimento ogni contaminazione e ogni restrizione, vera o presunta, dell’universalità.
Osserva a questo proposito con il consueto acume Hegel, criticando le tendenze al messianismo anarcoide che si erano manifestate già nel corso della Rivoluzione francese, in particolare nella fase democratico giacobina: “l’autocoscienza universale non si lascia defraudare della sua realtà effettuale né dalla rappresentazione dell’obbedienza a leggi date da sé e che le assegnano solo una parte, né dalla sua rappresentazione nel legiferare e nell’attività universale. Non si lascia defraudare della realtà che consiste nel legiferare essa stessa e nel compiere essa stessa non un’opera singola, bensì l’opera universale. Infatti, quando il singolo si trova soltanto nella rappresentazione della sua rappresentanza, il singolo non è reale. Dove il singolo è presente mediante qualcuno che lo rappresenta, il singolo è negato” [2]. In tale critica è evidente la polemica di Hegel con i sostenitori rousseauiani della democrazia diretta in aperta antitesi alla concezione liberale della rappresentanza. Dunque, la corretta necessità di evitare la burocrazia porta spesso a pretendere un’impossibile collegialità in ogni fase del processo decisionale, sino a rigettare ogni organismo rappresentativo, qualsiasi organismo istituzionale, ogni regolamentazione giuridica.
Tali posizioni si ripresentano anche a seguito della rivoluzione socialista in Russia e sono portate avanti dalla cosiddetta Opposizione operaia, che tende appunto a voler eliminare ogni forma di delega, in quanto significherebbe affidare a qualcun altro il proprio stesso destino. Contro questa espropriazione, che le appare intollerabile, l’Opposizione operaia rivendica una direzione che sia necessariamente collettiva in ogni singola fase del processo decisionale, con la conseguente condanna di ogni organismo rappresentativo. Anzi, a ben guardare, a essere preso di mira finisce con l’essere ogni progetto di ordinamento costituzionale e persino di regolamentazione giuridica, bollati a priori quali tentativi di incatenare o frantumare l’universalità e, dunque, in quanto espressione in ultima analisi di un ancien régime ancora duro a morire.
Anche a questo proposito è utile tornare alle ancora attuali critiche hegeliane a questa attitudine universalista che per giungere all’azione, per conseguire realtà ed efficacia e divenire “volontà reale” deve trovare espressione in individui concreti, deve “collocare al vertice un’autocoscienza singola”. Ciò non può che apparire scandaloso al messianismo anarcoide, in quanto in tal modo “tutti gli altri singoli sono esclusi dalla totalità di questa azione e vi giocano soltanto un ruolo limitato e, quindi, l’azione non sarebbe azione della reale autocoscienza universale”. Dunque, la tragedia della Rivoluzione francese e, in scala più ampia, della rivoluzione d’Ottobre consiste in ciò: se vuole evitare di ridursi a una vuota frase, il pathos dell’universalità deve darsi un contenuto concreto e determinato, ma è proprio questo contenuto concreto e determinato che fa gridare allo scandalo e al tradimento. A ben guardare, è la particolarità in quanto tale a essere bollata come un elemento di contaminazione e di negazione dell’universalità. Finché continua a prevalere questa attitudine, alla liquidazione dell’antico regime non fa seguito la costruzione di un nuovo, concreto ordinamento: “la libertà universale, dunque, non può produrre nessun’opera e nessuna azione positiva; ad essa resta solo l’attività negativa. La libertà universale è soltanto la furia del dileguare” [3].
Un nuovo ordinamento presuppone una ridistribuzione degli individui in “masse spirituali”, in organismi sociali, in corpi intermedi, sia pure costituiti e organizzati secondo modalità diverse e nuove, rispettose dei princìpi della rivoluzione. Senonché, la nuova articolazione della società, qualunque essa sia, appare come una negazione dell’universalità agli occhi del messianismo anarcoide. Infatti, “attività e l’essere della [singola] personalità si troverebbero in tal modo limitati a un ramo del Tutto, a una sola specie dell’attività e dell’essere”. E, dunque,: “posta nell’elemento dell’essere, la personalità riceverebbe così il significato di personalità determinata, e, in verità, cesserebbe di essere autocoscienza universale”. È un’analisi illuminante della dialettica che si sviluppa sull’onda sì della Rivoluzione francese ma anche, e in modo ancora più netto, della rivoluzione d’Ottobre, allorché il pathos dell’universalità si fa sentire con forza ancora maggiore, sia nelle sue forme più ingenue che nelle sue forme più mature.
Del resto, la componente più propriamente ideologica del terrore – ancora una volta, come nella Rivoluziona francese, sorto dallo Stato d’emergenza imposto dall’aggressione esterna e dalla guerra civile – rinvia, a parere di Domenico Losurdo [4], all’ingenua adesione dei rivoluzionari a una concezione utopistica e astratta dell’universalità. La concezione di Losurdo si fonda nuovamente sull’interpretazione critica di Hegel del terrore della Rivoluzione francese, sviluppata a partire dalla Fenomenologia dello spirito. Nella misura in cui il Terrore è il risultato non della situazione oggettiva, ma di un’ideologia, esso va messo sul conto – a parere di Losurdo che sviluppa l’analisi di Hegel – in primo luogo del messianismo anarcoide, dell’universalismo astratto che, nella sua fuga da ogni elemento particolare e determinato, riesce a esprimersi solo nella “furia del dileguare”. Si comprende ormai il carattere inconcludente e rovinoso del mito di una volontà generale ovvero di una democrazia diretta, di una direzione collettiva che, senza mediazioni e intralci burocratici, si esprima direttamente e immediatamente nelle fabbriche, nei posti di lavoro, negli organismi politici.
Allo stesso modo si manifesta una contraddizione tra l’omaggio reso all’ideale dell’estinzione dello Stato e l’appello allo Stato a intervenire anche nell’ambito dei rapporti familiari, ma è la contraddizione che immancabilmente si manifesta tra la retorica libertaria dell’universalismo astratto e le pratiche di violenza che esso finisce con lo stimolare. Superando questa caricatura di socialismo, i comunisti sono costretti dall’esperienza a tener conto dell’enorme importanza dell’incentivo individuale privato al fine dello sviluppo delle forze produttive. Gridare invece, come faceva l’opposizione, alla degenerazione della Russia sovietica a causa della persistenza dell’economia privata nelle campagne e della collaborazione di classe dei comunisti coi contadini (e con gli strati borghesi tollerati dalla Nep), avrebbe condotto alla fine della pace civile e, come ebbe modo di denunciare, a ragione, Bucharin a una tragica replica su scala allargata della notte di san Bartolomeo.
A questo punto ci si deve interrogare con Losurdo se a determinare la sconfitta di Bucharin sia stata soltanto la necessità di accelerare al massimo l’industrializzazione del paese in previsione della guerra, oppure abbia contribuito anche l’ostilità irriducibile per ogni forma di proprietà privata, per l’economia mercantile? Non è questa la sede per ricostruire un dibattito appassionato e uno scontro tragico che avvenne al vertice del Partito comunista. Resta il fatto che il gulag su larga scala e gli orrori dell’universo concentrazionario si diffonderanno alcuni anni dopo sull’onda della collettivizzazione forzata dell’agricoltura e del pugno di ferro contro le tendenze borghesi e piccolo-borghesi dei contadini, membri per lo più di quei “popoli senza storia”, per usare l’infelice linguaggio che Rosa Luxemburg desume da Friedrich Engels. Al di là degli errori o della brutalità di questo o quel dirigente politico, non ci sono dubbi sul ruolo funesto svolto da un universalismo, come quello del messianismo anarcoide, incapace di sussumere e tenere conto delle ragioni del particolare.
Note:
[1] Vladimir I. U. Lenin, “I compiti immediati del potere sovietico” [aprile 1918], in Id., Sulla rivoluzione socialista, edizioni progress, Mosca 1979, p. 320.
[2] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La fenomenologia dello spirito [1807], La nuova Italia, Firenze 1996, p. 367.
[3] Ibidem.
[4] Su queste problematiche si veda: Domenico Losurdo, Utopia e stato d’eccezione, Laboratorio politico, Napoli 1996.