A parere di György Lukács il destino è una categoria hegeliana fondamentale per il periodo di Francoforte; tramite essa Hegel cerca di fronteggiare e armonizzare i suoi contrastanti sviluppi di pensiero: da una parte, infatti esiste la tendenza a dissolvere l’oggettività nel misticismo della fede, dall’altra “quando si tratta dei rapporti sociali storici, egli è troppo sobrio e realistico per prendere sul serio l’esigenza religiosa dell’oggettività senza oggetto” [1]. In questo processo altalenante di pensiero, che si configura come una vera e propria antitesi con soluzioni opposte, la categoria di destino rafforza la tendenza realistica, poiché il significato assegnato al termine – in questo contesto teorico – è quello di totalità della vita, all’interno della quale si intrecciano le relazioni di individuo e società, fondamento del nucleo dialettico di particolare e universale.
Con tale impostazione si consuma il distacco definitivo da Kant: la morale kantiana, nel trasporre a livello teoretico la scissione esistente nella realtà, non è altro per Hegel che una radicalizzazione dello spirito di separatezza, che provoca una profonda estraneità dell’uomo con se stesso, un conflitto doloroso al suo interno tra esigenze razionali e inclinazione sensibile. Una conseguenza del formalismo morale di Kant è la sopravvalutazione della forma giuridica della legge, che stabilisce un rapporto di necessità meccanica ed esteriore tra colpa e castigo e una rigida consequenzialità tra delitto e pena; a essa Hegel contrappone un’idea di necessità più viva e più concreta, che si fa valere a livello storico-sociale e non in virtù dell’astratto principio di universalità del diritto: “questo tratto essenziale del destino viene ulteriormente accentuato da Hegel in quanto egli respinge nettamente la meccanica subordinazione kantiana dell’individuo alla società (dove la società rappresenta sempre e rigidamente solo l’universale, e l’individuo, non meno rigidamente, solo il particolare, e perviene all’universale solo mediante una sottomissione incondizionata ai principi generali: imperativo categorico), e introduce la dialettica dell’universale e del particolare nel rapporto di individuo e società. Individuo e società vengono concepiti, in questo contesto di destino, come potenze in lotta; potenza sta contro potenza, e dalla lotta si rinnova continuamente la vivente unità del tutto” [2].
L’elaborazione hegeliana del tema del destino porta, dunque, a una concretizzazione della dialettica di universale e di particolare, che comincia a prendere forma attraverso il confronto e il superamento dell’assolutizzazione delle determinazioni riflessive kantiano-fichtiane. Tuttavia, questo indirizzo impresso alla ricerca, con l’importante guadagno così ottenuto per lo sviluppo del metodo dialettico, si scontra con l’aspirazione consapevole di Hegel alla conciliazione assoluta e all’estinzione dei termini riflessivi nella vita religiosa. Tale contrasto è ancora una volta rivelativo, secondo Lukács, della contraddizione tra metodo e sistema, che rimarrà valida per tutto lo sviluppo del suo pensiero: “il nocciolo fecondo di questa concezione del destino di Francoforte consiste proprio in questi avvii all’elaborazione del metodo dialettico. E tutti questi tentativi, per quanto, da Hegel stesso e consapevolmente, siano stati intrapresi allo scopo di puntellare la sua concezione religiosa, corrono in una direzione addirittura opposta, si trovano, tendenzialmente, in netta contraddizione con questo suo obiettivo.” [3].
Sotto questo punto di vista, la figura di Gesù riveste un valore esemplare per l’esito tragico del suo volontario sottrarsi al destino del suo popolo; più che modello di vita religiosa e di superamento delle opposizioni, la figura di Gesù appare come l’incarnazione e la cifra della loro irrisolvibilità e ciò in contrasto con le stesse intenzioni di Hegel.
Nell’accostare la figura tragico-storica di Gesù all’Empedocle di Hölderlin, Lukács ne mette in luce anche la sostanziale differenza. In Hölderin la dimensione tragica, ispiratrice della sua poesia, è sempre consapevole, “mentre Hegel, a Francoforte, voleva armonizzare – proprio attraverso la concezione della vita religiosa – le contraddizioni della società borghese, ed è giunto a questa tragedia contro le sue intenzioni consapevoli, in seguito al contrasto oggettivo tra il sistema a cui mirava ed il metodo effettivamente impiegato, applicando onestamente questo metodo nonostante che fosse in contraddizione con le conclusioni auspicate. La conclusione tragica, in Hegel, non è quindi affatto così consapevole come in Hölderlin” [4].
Abbiamo visto quali siano i motivi e i contenuti della “svolta” di Francoforte nell’evoluzione del pensiero di Hegel; essi si possono riassumere nella maggiore aderenza ai fattori storici, recepiti da Hegel nella loro processualità contraddittoria, donde la sua intenzione di conciliarli ricorrendo a categorie quali la vita, l’amore, il destino, le quali, anche se intrise di misticismo, segnano per Lukács una tappa significativa per l’acquisizione del metodo dialettico.
Presupposto e conseguenza insieme di questo nuovo orizzonte di ricerca è il distacco da Kant e l’inizio di quel confronto critico con il suo pensiero, che accompagnerà costantemente Hegel in tutte le espressioni della sua filosofia. Si è accennato precedentemente al fatto che, negli scritti di Berna, il principio dell’autonomia morale ha costituito il criterio interpretativo per distinguere la religione razionale dalla religione positiva; tale funzione euristica cessa completamente a Francoforte, anzi la morale kantiana, nella netta separazione di homo phaenomenon e di homo noumenon acquista per Hegel il significato di espressione filosofica eternizzante delle scissioni del mondo borghese: “la polemica contro Kant prende le mosse dal fatto che questi, secondo l’opinione di Hegel, assolutizza i singoli momenti della moderna lacerazione borghese, e assolutizzandoli li irrigidisce, eternando così le contraddizioni in una forma primitiva, non sviluppata e quindi ineliminabile” [5].
Siamo di fronte a una storicizzazione della morale kantiana, che Lukács approfondisce facendo risalire la scissione, in essa contemplata, tra le qualità spirituali e le qualità sensibili dell’uomo alla divisione capitalistica del lavoro. Sia l’imperativo categorico di Kant che l’etica fichtiana sono una risposta, un tentativo di conciliare nella sfera separata del sovrasensibile le contraddizioni presenti nel mondo fenomenico. Si tratta della versione etico-filosofica dell’“uomo totale”, dell’ideale coltivato dalla borghesia – soprattutto nel periodo pre-rivoluzionario –, la cui realizzazione viene proiettata in un futuro indeterminato, con l’illusione che la società borghese nella sua “idea” non contenga alcuna contraddizione; “di conseguenza – afferma Lukács –, se gli uomini vivessero interamente secondo la legge morale, non vi sarebbero, nella società, conflitti e contraddizioni di sorta. La concezione filosofica di questa sfera morale diventa possibile solo per il fatto che tutti i problemi morali della società borghese vengono trasformati in esigenze formali della «ragion pratica»” [6].
D’altra parte la soluzione kantiano-fichtiana non fa che riprodurre, per Hegel, all’interno dell’uomo la scissione che, nella situazione di “positività”, era data dall’imposizione di un comando esterno (eteronomia); il fatto che adesso il comando proviene dall’interno stesso dell’uomo (l’imperativo categorico e l’autonomia morale) non cambia nulla della condizione di lacerazione, anzi rende eterno il contrasto tra l’universalità astratta del principio e il particolare dell’inclinazione sensibile. Non è quindi questa la via che poteva seguire Gesù nella sua volontà di conciliare i conflitti: “a colui che voglia ricostituire l’uomo nella sua integrità era impossibile battere una simile via che alla lacerazione dell’uomo accompagna solo un’ostinata albagia. Agire nello spirito della legge non poteva significare per lui agire secondo il rispetto per il dovere, in contraddizione con le inclinazioni” [7].
Hegel respinge la morale di Kant perché essa non si rivolge all’uomo vivente, inserito in determinati rapporti storici e sociali; il dovere, che si impone in modo incondizionato, pretende di farsi valere in qualsiasi circostanza e prescinde dalla giustezza o dalla falsità della sua applicazione in condizioni mutate. L’assolutizzazione del dovere, tralasciando di considerare i contenuti della morale, li accoglie acriticamente, per cui “i singoli precetti della morale stanno isolati l’uno accanto all’altro, come conseguenze logiche dichiarate cogenti di un «principio razionale» unitario, metastorico e metasociale” [8].
Poiché la critica hegeliana al formalismo astratto dell’etica kantiana si sostanzia con il richiamo ai contenuti storici e sociali della morale, ossia alla totalità delle determinazioni concrete di un dato periodo storico, Lukács vede in ciò un grande passo in avanti nello sviluppo della dialettica hegeliana. Attraverso il confronto con Kant, Hegel ha sperimentato la durezza dei fenomeni particolari, il loro rapporto di opposizione e la difficoltà, se non l’impossibilità, di approntare una conciliazione che li annulla in una unificazione indifferenziata. Reagendo all’assolutizzazione delle opposizioni operata dalla filosofia della riflessione di Kant, e nello stesso tempo avvertendo la necessità di salvarne i contenuti e la dimensione di concretezza, Hegel rafforza progressivamente gli strumenti metodici atti a una comprensione più profonda della società borghese: “in quanto ogni momento, ogni dovere, si affaccia con la pretesa dell’assolutezza, deve necessariamente entrare in contraddizione con un altro momento, che eleva la stessa pretesa. E solo la totalità vivente di tutte queste determinazioni risolve questo contrasto. Ma la sua essenza consiste proprio nell’essere una totalità di queste determinazioni contrastanti [...]. La conoscenza del fatto che il singolo momento si affaccia necessariamente con una pretesa di assolutezza, costituisce infatti il futuro punto centrale della critica e del riconoscimento, da parte di Hegel, della cosiddetta filosofia della riflessione, della posizione delle determinazioni della riflessione nel metodo dialettico” [9].
Note:
[1] Lukács, György, Der junge Hegel und die Probleme der kapitalistischen Gesellschaft (1948), Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, traduz. di Solmi, R., Einaudi, Torino 1975, p. 281.
[2] Ivi, pp. 286-87.
[3] Ivi, p. 290.
[4] Ivi, p. 296.
[5] Ivi, p. 221.
[6] Ivi, p. 223.
[7] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Scritti teologici giovanili, traduz. di Vaccaro N. e Mirri E., Guida editori, Napoli 1977, p. 378.
[8] Lukács, György, Il giovane Hegel…, op. cit., p. 227. È da notare la curiosa circostanza di questa critica di Hegel all’“apriorismo logico” e al conseguente “positivismo acritico” da lui rilevato nella morale kantiana; egli stesso sarà oggetto della medesima critica da parte di Marx nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico.
[9] Ivi, pp. 241-42.