Non esiste incompatibilità tra la lotta per la conquista dei diritti civili e quella dei diritti sociali

Un articolo di Barbara Luce, del Partito Comunista do Brasil, la cui traduzione è uscita di recente su “Cumpanis”, propone un’interessante analisi di un tema caro anche alla nostra redazione: il legame fra diritti civili e diritti sociali.


Non esiste incompatibilità tra la lotta per la conquista dei diritti civili e quella dei diritti sociali

Come si può coniugare la lotta per l’affermazione dei diritti civili con quella per i diritti sociali, ossia più brevemente con la lotta di classe? L’interessante articolo di Barbara Luce, del Partito Comunista do Brasil, recentemente tradotto e pubblicato dalla rivista “Cumpanis”, che potete trovare a questo link, offre utili spunti alla riflessione su questo tema, che spesso è affrontato in modo manicheo tra chi considera i diritti civili come staccati dalla lotta di classe e chi li considera accessori alla stessa e dunque li sottovaluta.

In effetti, in risposta alla tanta enfasi che i nostri media mettono sulla questione di genere, sui diritti delle minoranze sessuali ed etniche, alcuni hanno riproposto in maniera riduttiva la centralità della lotta di classe; centralità che resta, giacché sono solo i lavoratori salariati che hanno la forza potenziale di bloccare l’ingranaggio del sistema capitalistico, ma questa lotta deve in qualche modo ricomprendere le altre rivendicazioni. 

In questa direzione si muove un importante libro della sociologa statunitense Lise Vogel, intitolato Marxism and the Oppression of the Women: Toward a Unitary Theory, pubblicato nel 1983 e disponibile anche in italiano.

In questo testo, appartenente a una vasta letteratura dedicata alla complessa relazione tra marxismo e femminismo, si distingue giustamente tra femminismo istituzionale e femminismo socialista; il primo è quello che gioisce dell’avanzamento delle donne (la Meloni primo ministro) che avviene senza che il contesto sociale subisca un qualche cambiamento. Per di più, assai spesso, circola la favola che la donna in quanto donna sarebbe migliore dell’uomo soprattutto nell’attività politica, come se il sesso fosse l’unico elemento determinante a plasmare la personalità di un individuo e non contassero aspetti come la formazione culturale e politica, l’esperienza di vita etc. Pensiamo a personaggi come Margaret Thatcher, Hilary Clinton, Condoleezza Rice etc., la cui appartenenza al sesso femminile non le ha rese persone meno spietate.

Invece, il femminismo socialista aspira alla conquista dei diritti per la donna, conquista però che per essere reale deve implicare una radicale trasformazione della società. In particolare questa tendenza politica riconduce l’oppressione della donna alla funzione di quest’ultima nel processo della riproduzione della classe dei lavoratori, mostrando che esiste uno stretto legame tra la famiglia, così come è intesa oggi, e la perpetuazione del sistema capitalistico. Pertanto, giustamente nega l’esistenza di una ‘astorica’ società patriarcale e mostra come il capitalismo abbia bisogno di istituzioni patriarcali, storicamente costituitesi nel passato, per costringere la donna a svolgere un pesante lavoro gratuito e l’uomo a lavorare per mantenere la sua compagna e i loro figli, lavoratori futuri.

Quanto al razzismo, argomento centrale dell’articolo qui proposto, bisogna tenere conto del fatto che in una forma debole è riscontrabile anche nelle società più semplici; infatti, come gli antropologi hanno sottolineato, molto spesso un popolo definisce se stesso con un termine traducibile con la parola “uomini”, intendendo così che gli altri non sono pienamente tali. Da parte loro, i biologi evoluzionisti hanno ampiamente dimostrato che le razze umane non esistono, dato che condividiamo tutti lo stesso patrimonio genetico e siamo tutti figli di un antico antenato, i cui resti risalenti a 195.000 anni fa sono stati scoperti in Africa, da dove siamo emigrati per popolare il mondo.

Il razzismo moderno ha le sue origini nel sistema schiavistico antico, nell’antisemitismo, nella tratta degli schiavi e anche nell’egemonia occidentale che, nell’epoca coloniale, aveva bisogno di sancire l’inferiorità dei neri, degli indios e di tutte le popolazioni conquistate per giustificare ideologicamente il lavoro forzato nelle piantagioni, nelle miniere e in tutte le attività pesanti. Pertanto, il razzismo costituisce la costruzione culturale che rafforza lo sfruttamento e il dominio di classe. Se questa conclusione è sensata, ovviamente l’instaurazione della democrazia formale non può produrre la cancellazione di esso, giacché le differenze di classe, oggi ancora più consistenti, debbono essere necessariamente rese accettabili anche da parte delle loro stesse vittime per non creare crepe in un sistema che si fonda sulla disuguaglianza.

Concludendo, non mi pare ci sia contraddizione tra diritti civili e diritti sociali in quanto i secondi rendono concreti e pienamente praticabili i primi.

27/05/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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