Il permanere del cosmopolitismo preborghese, a fronte dello sviluppo nazionale e imperialistico di altri paesi, ha portato un popolo arretrato come quello italiano a divenire “l’esercito di riserva di capitalismi stranieri”, avendo fornito “maestranze a tutto il mondo” [1]. Proprio perciò il popolo italiano deve ora, per Antonio Gramsci, “innestarsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo” (9, 127: 1191). È nella tradizione culturale cosmopolita di un tale popolo cooperare alla ricostruzione economica di un mondo, anche straniero, che ha “contribuito a creare con il proprio lavoro” (ibidem), “non per dominarlo e appropriarsi i frutti del lavoro altrui, ma per esistere o svilupparsi” (ivi: 1190). Il superamento dialettico di tale tradizione non può che portare all’internazionalismo, considerato da Gramsci uno sviluppo organico del cosmopolitismo nella sua forma adeguata al mondo contemporaneo [2].
Perciò i dirigenti progressisti di tali paesi dovranno, secondo Gramsci, indicare al proprio popolo le più avanzate forme di governo sviluppate a livello internazionale quale via maestra da seguire per conquistare una reale autodeterminazione nazionale [3]. Al contrario, l’ideologia dei ceti dominanti tenderà a giustificare come “«originalità» nazionale” la condizione di sovranità limitata e di arretratezza “semifeudale” (13, 13: 1575) del paese, facendo credere “tecnicamente impossibile” (13, 2: 1562) ogni rivolgimento strutturale. La debolezza della nazione sul piano internazionale diviene così strumento d’egemonia della classe dominante, funzionale a impedire ogni intervento attivo sul piano politico delle forze nazionali-popolari.
Non è, dunque, il partito d’ispirazione internazionalista a subordinare le esigenze nazionali alla politica sovranazionale, come dà a intendere l’ideologia dominante, ma piuttosto “il partito più nazionalistico, che, in realtà, più che rappresentare le forze vitali del proprio paese, ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni (…) egemoniche” (ivi, 1562-563).
Del resto, nel mondo contemporaneo “tutta l’attività economica di un paese può essere giudicata solo in rapporto al mercato internazionale” (9, 32: 1115). Tuttavia se “la ricchezza nazionale è condizionata dalla divisione internazionale del lavoro”, dipenderà comunque dalla capacità della classe dirigente nazionale “saper selezionare tra le possibilità che questa divisione offre, la più razionale e redditizia” (19, 6: 1990). In assenza di una direzione efficace, l’internazionalizzazione dell’economia non potrà sanare una realtà sociale nazionale basata “sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici” (ivi, 1991). Per Gramsci, infatti, il mancato sviluppo e il ruolo subordinato di uno Stato sullo scacchiere internazionale dipende in primo luogo dal mancato sviluppo dei rapporti di produzione interni e solo in seconda istanza dagli effetti perversi del mercato mondiale. Dunque, “la proiezione nel campo internazionale della questione può essere un alibi politico” (ivi, 1990) per nascondere l’incapacità di direzione della classe nazionale dominante.
Una politica economica che non muova dalla soddisfazione dei bisogni nazionali costituisce un ostacolo alla crescita del paese in quanto è funzionale “a creare l’equilibrio di attività (…) non di una comunità nazionale” (3, 118: 386), ma di un mercato internazionale subordinato agli interessi delle potenze dominanti. Tale situazione non fa che accentuare la condizione “di arretratezza e di stagnazione” (13, 13: 1574) delle nazioni subalterne [4].
Tuttavia, i limiti di una determinata struttura produttiva, nel caso specifico analizzato da Gramsci quella capitalista, avranno ripercussioni globali, internazionali dal momento che “il mondo è una unità, si voglia o non si voglia, e che tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe «crisi»” (15, 5: 1757). Solo superando la contraddizione della società borghese fra sviluppo delle forze produttive – dovuta alla progressiva socializzazione del lavoro – e proprietà privata dei mezzi di produzione, sarà possibile sanare l’opposizione fra una vita economica che “ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo” e una vita statale che “si è sempre più sviluppata nel senso del «nazionalismo»” (ivi: 1756). In caso contrario l’estensione della produzione su scala internazionale sarà progressivamente contrastata dal risorgere del “nazionalismo economico” e del “«razzismo» che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del lavoro umano” (19, 6: 1990).
L’internazionalismo, nella sua forma moderna, è difatti il prodotto dello sviluppo capitalistico che tende a socializzare il lavoro, favorendo la presa di coscienza dei subalterni mediante il reciproco riconoscimento degli sfruttati nel “«lavoratore collettivo» (…) non solo in ogni singola fabbrica ma in sfere più ampie della divisione del lavoro nazionale e internazionale che appunto per ciò non è più subalterna e questa coscienza acquistata dà una manifestazione esterna, politica” (9, 67: 1138), ovvero “mostra di tendere a uscire dalla sua condizione subordinata” (Ibidem). In effetti, ciò consente ai lavoratori, divenuti “agenti di attività generali, di carattere nazionale e internazionale” (12, 1: 1523), di passare da un’organizzazione corporativa a una di carattere politico finalizzata a superare la propria condizione di subalternità.
A questo scopo è essenziale che tale organizzazione si fondi su di un centralismo democratico volto a rinvenire, in modo sperimentale e critico, “ciò che è uguale nell’apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell’apparente uniformità”, ovvero “a sceverare l’elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica” (13, 36: 1635) [5].
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 1191. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Come osserva a tal proposito Gramsci: “non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. E popolo italiano è quello che «razionalmente» è più interessato all’internazionalismo. Non solo l’operaio ma il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione della storia italiana e del popolo italiano, non per dominarlo e appropriarsi i frutti del lavoro altrui, ma per esistere o svilupparsi. Il nazionalismo è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati di Dante. La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva di capitalismi stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo, insieme coi popoli slavi. Appunto perciò deve innestarsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare con il suo lavoro” (9, 127: 1190-191).
[3] Del resto, come osserva Gramsci, “una ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in paesi meno sviluppati, incidendo nel gioco locale delle combinazioni” (13, 17: 1585).
[4] La condizione di subalternità di uno Stato non fa che accentuare la sua condizione interna di sottosviluppo. Persino un grande fenomeno culturale sviluppato sul terreno nazionale, come ad esempio il Rinascimento, finisce per essere in tale caso fonte di progresso all’estero dove “è vivo [nelle coscienze] dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità”, piuttosto che in patria “dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca” (3, 144: 401).
[5] Come osserva a tal proposito Gramsci: “il centralismo democratico offre una formula elastica, che si presta a molte incarnazioni; essa vive in quanto è interpretata e adattata continuamente alle necessità: essa consiste nella ricerca critica di ciò che è uguale nell’apparente disformità e invece distinto e anche opposto nell’apparente uniformità per organare e connettere strettamente ciò che è simile, ma in modo che l’organamento e la connessione appaiano una necessità pratica e “induttiva”, sperimentale e non il risultato di un processo razionalistico, deduttivo, astrattistico, cioè proprio degli intellettuali puri (o puri asini). Questo lavorio continuo per sceverare l’elemento «internazionale» e «unitario» nella realtà nazionale e localistica è in realtà l’azione politica concreta, l’attività sola produttiva di progresso storico. Esso richiede una organica unità tra teoria e pratica, tra ceti intellettuali e masse popolari, tra governanti e governati” (13, 36: 1635).