Secondo il giovane György Lukács l’azione etica che punta direttamente alla trasformazione dell’anima degli uomini, prescindendo dal corso della politica e dall’inerzia delle istituzioni, deve integrarsi con l’idealismo etico, per il quale “nessuna istituzione (dalla proprietà alla nazione, allo stato) può avere valore in sé, ma solo nella misura in cui è al servizio di tale trasformazione” [1].
Lukács ribadisce dunque la subordinazione della politica all’etica: il bersaglio polemico, fin troppo trasparente, permane lo spirito oggettivo hegeliano, il quale può ispirare soltanto una politica conservatrice, poiché in esso si smarrisce il senso dell’intenzionalità originaria per cui è sorta una determinata istituzione e non ci si chiede se essa attualmente corrisponda al suo scopo iniziale. Il criterio interpretativo lukácciano è l’obiettivizzazione del Cristo del Manoscritto-Dostojevskij: “ogni istituzione divenuta un fine in sé ha un carattere conservatore: e questo fatto non spiega soltanto la politica reazionaria della Chiesa [...], ma anche la stagnazione dei movimenti originariamente molto progressisti, stagnazione che ha inizio non appena le istituzioni da essi create come mezzi hanno acquistato una tale autonomia. (La storia del socialismo tedesco, già prima, ma soprattutto durante la guerra, è un esempio tristemente educativo)” [2].
All’immobilismo e alla rigida fissazione, esito dell’idealismo conservatore (lo spirito oggettivo hegeliano), si oppone il dinamismo e l’attivismo incessante dell’idealismo etico, proteso verso il raggiungimento del fine: “l’idealismo etico è una rivoluzione permanente contro l’esistente in quanto tale, in quanto qualcosa che non raggiunge il suo ideale etico; e, dal momento che è una rivoluzione permanente, una rivoluzione assoluta, è in grado di definire e di correggere l’orientamento e il cammino del vero progresso, quello che non raggiunge mai un punto d’equilibrio” [3].
L’attivismo fichtiano, pur piegato in direzione politica, non trascende l’orizzonte dell’etica dell’intenzione e, nel suo urto con il reale, si arena nella secca della cattiva infinità (secondo la capitale critica hegeliana all’idealismo soggettivo di Kant e di Fichte). E in effetti, in questo saggio, persiste la dicotomia di essere e dover essere, di soggetto e oggetto, che in sede estetica Lukács aveva portato a soluzione, avvalendosi della mediazione dialettica e della categoria di totalità applicate all’opera d’arte. Nella Estetica di Heidelberg (1916-18), Lukács, basandosi su principi di ispirazione kantiana, aveva teorizzato l’insopprimibilità della scissione di soggetto e oggetto nel campo logico e nel campo etico. La tipicità della sfera estetica, rispetto a quella etica e/o logica, consiste appunto nel fatto che nell’opera d’arte – l’unica totalità concreta possibile – si attua la sintesi di valore e di realizzazione di valore insieme alla ricomposizione di soggetto e oggetto: “esclusivamente nell’estetica si dà non solo un comportamento del soggetto che corrisponde alla norma della sfera e che la adempie, un comportamento cioè che equivale veramente all’esser-soggetto e non soltanto ad una tendenza verso la soggettività, ma anche un oggetto corrispondente ad esso...” [4].
Col saggio del dicembre 1918 Il bolscevismo come problema morale siamo alla vigilia dell’adesione di Lukács al comunismo; in esso vengono alla luce le sue perplessità, le titubanze e le ultime resistenze di fronte alla svolta del destino. La questione affrontata concerne la maturità o meno della rivoluzione: se per essa siano sufficienti i fattori economici (le condizioni oggettive), o se sia determinante la volontà (il fattore soggettivo) per portare a compimento il processo rivoluzionario. Per Lukács, la lotta per la nuova società condotta secondo l’esclusivo interesse di classe è destinata a riprodurre sotto nuova forma la stessa oppressione, che si era intesa eliminare. La rivoluzione e il suo sbocco positivo non sono conseguenza automatica della situazione economica e, inoltre, la semplice constatazione delle leggi socio-economiche non può assicurare di per sé la realizzazione dell’ideale rivoluzionario della libertà degli uomini. La componente etica, cioè la determinazione soggettiva di volere il mondo nuovo, è parte integrante e decisiva sia della maturità della rivoluzione, sia del suo successo duraturo.
La trasformazione del mondo diventa, quindi, un problema etico piuttosto che economico. La separazione di realtà oggettiva e, in posizione dominante, di etica ricorda – senza volere qui attenuare la distanza esistente tra l’opportunismo politico dei partiti social-democratici e l’utopismo messianico lukacciano – la concezione dualistica del pensiero di Marx in voga presso i teorici neokantiani della II Internazionale, vale a dire la distinzione tra il materialismo storico come teoria scientifica delle connessioni causali e il socialismo come postulazione etica di un futuro migliore. Sovrapposizione, quindi, di causalità e teleologia, di scienza e ideologia e non la loro sintesi dialettica: è quanto anche Lukács legge nel pensiero di Marx: “molti hanno trascurato il fatto che i due cardini del sistema, la lotta di classe e il regime socialista chiamato ad abolire ogni differenza di classe e ogni oppressione [...] non sono il prodotto dello stesso campo concettuale. La prima constatazione di valore epocale della sociologia marxista, ossia che fino ad oggi l’ordine sociale è sempre esistito e la sua forza motrice ha operato sempre secondo una legge di necessità, è uno dei concetti base più importanti intorno alle connessioni della realtà storica. L’altro postulato utopistico della filosofia della storia di Marx è appunto un programma morale per costruire un sistema mondiale dell’avvenire” [5].
Ma può il proletariato, che lotta per soddisfare i propri interessi di classe (“l’inclinazione sensibile”!), essere contemporaneamente il soggetto dell’edificazione del regno della libertà? Non esiste il rischio che da oppresso si trasformi in oppressore? E non è forse questo il pericolo reale cui va incontro il bolscevismo quando teorizza, mettendola in pratica, la necessità della dittatura del proletariato, con la convinzione che mediante essa sarà abolito ogni dominio di classe? Può dal male nascere il bene? [6]. Lukács ritiene che soltanto la volontà eticamente fondata del proletariato, il suo innalzamento a soggetto etico, portatore del “mondo dei fini”, può porsi il compito della redenzione dell’umanità: “a buon diritto Engels ha considerato il proletariato l’erede della filosofia classica tedesca, poiché in questo modo si è finalmente trasformato in azione l’idealismo etico di Kant e di Fichte, che annullava ogni vincolo terrestre e voleva scardinare metafisicamente il mondo” [7].
L’interessato riferimento al Ludwig Feuerbach di Engels, nel quale Lukács tace l’importante componente dell’eredità della filosofia classica tedesca, ossia la dialettica hegeliana, è una spia del timore lukacciano che il movimento rivoluzionario approdi a una riedizione dello spirito oggettivo hegeliano, contro il quale egli erge come valido elemento di contrasto l’idealismo etico. Si tratta dell’ultima resistenza prima dell’accettazione di Marx e di una sua lettura che passa attraverso la scoperta della dialettica hegeliana come istanza unificatrice di essere e dover essere, di soggetto e oggetto. Da lì a poco avremo la prima testimonianza della ricezione in chiave hegeliana di Karl Marx nel saggio Tattica ed etica dell’inizio del 1919.
Dalla concezione tragica di Anima e le forme alla concezione dialettica del reale: da Kierkegaard a Marx via Hegel, si potrebbe dire, ma il ponte che ha consentito il passaggio è stato l’utopismo della seconda etica, l’idea russa di Dostojevskij. Tragicismo, utopismo e dialettica: questa è, dunque, la via originale di Lukács a Marx, ma la sua personale esperienza anch’essa costellata “dal dubbio e dalla disperazione” è, inoltre, paradigmatica del travaglio di un’epoca, della crisi della sua cultura e della drammatica problematicità dei suoi protagonisti.
Compiuta la svolta del destino, Lukács è pronto per l’apprendistato del marxismo.
Note:
[1] G. Lukács, Il bolscevismo come problema morale [1918], in AA.VV., Storia e coscienza di classe oggi, Milano, Edizioni Aut Aut 1977, p. 105.
[2] Ivi, p. 108.
[3] Ivi, p. 109.
[4] Id., Estetica di Heidelberg [1916-18], traduz. di L. Coeta, Milano, SugarCo Edizioni 1974, p. 113.
[5] Id., Il bolscevismo…, op. cit., p. 113. L’idea che il marxismo, per raggiungere il proprio scopo, abbia bisogno di essere integrato dall’etica è presente anche nel capitolo Karl Marx, la morte e l’apocalisse dello Spirito dell’utopia di Ernst Bloch: “si può dire perciò che proprio la forte accentuazione di tutti i momenti (economicamente) determinanti e la latenza presente non ancora misteriosa di tutti i momenti che trascendono, avvicinano il marxismo ad una critica della ragion pura per la quale non è ancora stata scritta una critica della ragion pratica” E. Bloch, Spirito dell’utopia [1923], a cura di Francesco Coppellotti, Scandicci, La nuova Italia 1992, p. 321.
[6] Sembra che in questa problematica Lukács accomuni il bolscevismo con il personaggio dostojevskiano di Delitto e castigo, Raskolnikov, per il quale il denaro ottenuto con l’assassinio della vecchia usuraia egoista, inutile a se stessa e all’umanità, avrebbe potuto significare la salvezza di una moltitudine di vite e il mezzo per consacrarsi al servizio dell’umanità.
[7] G. Lukács, Il bolscevismo…, op. cit., p. 114.