Gramsci contesta all’astensionismo di fondarsi su una “concezione meccanicamente catastrofica: la forza dell’avversario crollerà matematicamente se con metodo rigorosamente intransigente lo si boicotterà nel campo governativo” [1]. L’astensionismo è solo apparentemente “intransigente”, essendo in realtà indizio di un atteggiamento economicista. L’economismo, come chiarisce Gramsci “si presenta sotto molte altre forme oltre che il liberismo teorico e il sindacalismo teorico. Appartengono all’economismo tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio l’astensionismo dei clericali italiani dal 1870 al 1919, divenuto dopo il 1900 sempre più parziale fino a sparire del tutto) che possono essere svariatissime, nel senso che ci può essere semiastensionismo, un quarto ecc. Non sempre l’economismo è contrario all’azione [politica] e al partito politico, che viene però considerato come organismo educativo di tipo sindacale. La così detta «intransigenza» è una forma di economismo: così la «formula tanto peggio tanto meglio» ecc” (4, 38: 461).
Perciò l’economicismo astensionista è considerato da Gramsci maggiormente arretrato della stessa “concezione liberale volgare di cui il sindacalismo è una manifestazione che credeva di essere più avanzata in quanto faceva realmente un passo indietro”, dal momento che non riconosceva l’importanza del “rapporto delle forze politiche organizzate nelle diverse forme di partito” (13, 17: 1581). Il rapporto di forza economico-sociale su cui unicamente puntava l’economicismo era in realtà contenuto nel rapporto delle forze politiche espresso dalle elezioni. L’astensionismo è dunque, prodotto o della rovinosa incapacità di comprendere i rapporti di forza reali o della paura di far emergere la propria incapacità di essere una forza egemone nella società civile. Anzi rinunciando sdegnosamente a tale compito decisivo è “espressione di un piatto opportunismo” (13, 37: 1648) [2].
D’altra parte Gramsci è ben consapevole che “il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio” per la demagogia regressiva che si serve “delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari , per le proprie piccole ambizioni” (6, 97: 772). Peraltro, le elezioni in quanto tali forniscono un consenso “generico e vago” alle classi dirigenti e hanno, dunque, un ruolo subordinato rispetto alle “associazioni politiche e sindacali” (1, 47: 56) mediante cui è possibile formare il consenso e la stessa eticità dei subalterni. D’altra parte lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa turba “il normale governo dell’opinione pubblica da parte dei partiti organizzati e definiti intorno a programmi definiti” (7, 103: 929). Mediante il controllo dei mass media è possibile “suscitare estemporaneamente scoppi di panico o di entusiasmo fittizio che permettono il raggiungimento di scopi determinati nelle elezioni” (ibidem).
Gramsci ne deduce l’intrinseca debolezza di una sovranità popolare esercitata tramite elezioni parlamentari ogni tot anni: “basta avere il predominio ideologico (o meglio emotivo) in quel giorno determinato per avere una maggioranza che dominerà per 3-4-5 anni, anche se, passata l’emozione, la massa elettorale si stacca dalla sua espressione legale” (ibidem). Ciò rende indispensabile la formazione di organismi intermedi fra le masse e il parlamento, come i sindacati che, tuttavia, non raggiungono una parte importante dell’elettorato abbandonato al potere manipolatore dei mass media. Inoltre la classe dirigente per mantenere la piena egemonia sulle masse tende a ostacolare ogni reale autonomia sindacale, facendone degli organismi neocorporativi.
Occorre, inoltre, tener presente che la classe dominante ricorrerà a tutti i trucchi elettorali che i rapporti di forza gli consentono per poter addomesticare i risultati elettorali. Da questo punto di vista particolarmente pernicioso è il sistema uninominale che restringe e falsifica “le posizioni politiche di massa per l’artificiosa delimitazione dei collegi” (19, 19: 2004), mediante l'obbligo di votare nel comune di origine” (5, 44: 577), per limitare il diritto di voto dei lavoratori delocalizzati. “Il popolo (ohibò!), il pubblico (ohibò!). I politici d’avventura domandano con cipiglio di chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos’è questo popolo? Ma chi lo conosce? Ma chi l’ha mai definito?» e intanto non fanno che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali (dal 24 al 29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe interessante di per sé)” (3, 7: 293). “Questo trucco si verifica specialmente nei collegi uninominali, costituiti in modo che pochi elettori bastano per eleggere i deputati di destra, mentre ne occorrono enormemente di più per eleggere un deputato di sinistra (…). Questo trucco si applica poi nei plebisciti per le questioni nazionali, estendendo a zone più ampie di quella dove una minoranza è omogenea la circoscrizione ecc.” (3, 67: 346-47).
In tal modo si consente il formarsi di “maggioranze fittizie” (3, 67: 346) e si spingono “i partiti a un opportunismo interno peggiore del compromesso parlamentare” (6, 40: 714). Da parte sua la classe dominante, inoltre, farà di tutto per evitare che il governo sia “espressione dell’assemblea nazionale” legislativa, per consentire all’esecutivo di svincolarsi dal controllo del parlamento, mediante: “il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione restrittiva; l’impiego più o meno esteso dei decreti-legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della guerra civile»” (13, 37: 1637-38).
Scarso valore ha, in tali casi, l’appello alla costituzione, la cui interpretazione secondo la lettera o lo spirito è determinata dai rapporti di forza fra le classi, tanto che venendo meno ogni spinta per una sua revisione “in senso radicale, si rafforza la tendenza «costituentesca» alla rovescia, che dando un’interpretazione restrittiva” (8, 101: 1000-01) favorisce la rottura dell’equilibrio dei poteri a vantaggio dell’esecutivo riducendo il parlamento “alla funzione dei Consigli di Stato in regime di assolutismo monarchico o dittatoriale di destra” (6, 185: 830).
Del resto, come osserva Gramsci, le costituzioni democratico-borghesi celano al loro interno dei meccanismi “che permettono il passaggio legale dal regime costituzionale-parlamentare a quello dittatoriale: esempio l’art. 48 della costituzione di Weimar, che tanta importanza ha avuto nella recente storia tedesca. Nella costituzione francese (…) la figura del Presidente della Repubblica ha possibilità di sviluppi di cui ancora non è stato necessario servirsi, ma che non è escluso siano impiegati” (14, 11: 1665-66). “Si può dire in generale che le costituzioni sono più che altro «testi educativi» ideologici, e che la «reale» costituzione è in altri documenti legislativi (ma specialmente nel rapporto effettivo delle forze sociali nel momento politico-militare)” (14, 11: 1666).
Tale tendenza a indebolire gli organi rappresentativi, fino a eliminare ogni prerogativa all’assemblea legislativa, produce nel senso comune “il contrasto tra il Parlamento come si pretendeva fosse e come era realmente, cioè poco meno di nulla” (8, 96: 998). In tal modo uno strumento decisivo dell’apparato egemonico delle classi dominanti “si screpola e l’esercizio dell’egemonia diviene permanentemente difficile e aleatorio” (13, 37: 1638) [3].
Al contempo, tale situazione di crisi d’egemonia della vecchia classe dirigente politica, porta ad ampliare il “contrasto tra rappresentanti e rappresentati” dal terreno elettorale-parlamentare all’intero organismo statale, “rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica” (13, 23: 1603). La burocrazia perde la sua funzione di servizio e tende a trasformarsi in “un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica” tende a sostituire “la gerarchia intellettuale e politica” (3, 119: 388) [4].
La “instabilità di direzione”, che mina dall’interno i partiti politici e li porta a disgregarsi e a moltiplicarsi esponenzialmente, si ripercuote tanto nel parlamento, quanto “nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi” (13, 37: 1639). Ciò favorisce la propaganda delle forze eversive volta a screditare il parlamentarismo e la democrazia, che tende a divenire senso comune di massa [5]. “Che gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista – sottolinea acutamente Gramsci – fingano di credere e proclamino a gran voce che si tratta della «corruzione» e della «dissoluzione» di una serie di «principi» (immortali o no), potrebbe anche essere giustificato: ognuno è il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l’abito è il monaco e il berretto il cervello. Machiavelli diventa così Stenterello” (Q 13, 37, 1638-39).
Note:
[1] Gramsci, A., Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, V., Einaudi, Torino 1977, p. 1647. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Cfr. 19, 31: 2057-58.
[3] “A questo processo contribuiscono i teorici-filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per lo sviluppo della parte formale e i movimenti o le pressioni di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive e inefficaci” (13, 37: 1637-38).
[4] In tal modo perdono consenso i partiti tradizionali che assicuravano il consenso alle elezioni essendo divenuto in seguito all’ampliamento della base elettorale “molto più difficile la corruzione individuale” (19, 26: 2040).
[5] “Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria. Le università, tutte le istituzioni che elaboravano le capacità intellettuali e tecniche, non permeate dalla vita dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano quadri nazionali apolitici, con formazione mentale puramente rettorica, non nazionale” (3, 119: 387-78).