Antonio Gramsci contrappone Hegel, ultimo esponente filosofico di una borghesia che era ancora la classe universale, per il quale la dialettica era ancora “espressione delle contraddizioni sociali” e riflesso di “grandi nodi storici”, a pensatori della borghesia divenuta classe dominante decadente e in via di putrefazione, come Benedetto Croce, che teorizzano che le utopie comuniste sarebbero ormai superate, in quanto le stesse contraddizioni sociali sarebbero ormai venute meno. In tal modo in questi filosofi utopisti, nel senso più deteriore del termine, come Croce la dialettica diverrebbe “una pura dialettica concettuale” [1].
Gramsci, di contro a tali ideologie, volte a identificare una società classista con la società comunista, ricorda come gli stessi utopisti “comprendevano benissimo che lo Stato-classe non poteva essere la società regolata, tanto è vero che nei tipi di società rappresentati dalle diverse utopie, s’introduce l’uguaglianza economica come base necessaria della riforma progettata” (6, 12: 693). In tal modo a essere utopisti nel senso deteriore del termine sono gli ideologi della borghesia divenuta reazionaria, pur di mantenere il proprio irrazionale dominio, mentre i socialisti pre-marxiani, da questo punto di vista, non erano utopisti “ma concreti scienziati della politica e critici congruenti” (ibidem). Perciò alcuni socialisti utopisti erano tali in quanto “ritenevano si potesse introdurre l’uguaglianza economica con leggi arbitrarie, con un atto di volontà”. Mentre hanno indubbiamente ragione nel sostenere che una effettiva eguaglianza politica necessita e presuppone una eguaglianza di tipo economica, come sanno anche i critici da destra della democrazia, che a ragione sbugiardano i democratici che, sulla base “del modello svizzero o danese” pretendono che il sistema democratico sia “ragionevole in tutti i paesi” (ibidem).
Utopisti in senso deteriore sono, per fare con Gramsci un altro esempio emblematico, gli abitanti del Nord Italia che si illudevano che l’unità con il sud del paese fosse avvenuta su una base di eguaglianza. In tal modo non comprendevano come “«la miseria» del Mezzogiorno” avesse un preciso fondamento storico in quanto l’unificazione si era realizzata mediante l’egemonia “del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il [suo] incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale” (19, 24: 2021-22).
L’accrescersi delle disuguaglianze nella società rende sempre più difficile alle classi dominanti governare con il consenso dei dominati; esse sono, dunque, costrette a potenziare il “carattere obbligatorio del diritto” (6, 98: 773) e l’intervento diretto dello Stato mediante il diritto penale, che rappresenta una forma indiretta di coercizione di classe, che supplisce progressivamente alla debilitata capacità della società civile di rendere la norma giuridica costume [2]. L’arresto dello spirito propulsivo del sistema segna il passaggio alla sua fase “repressiva” caratterizzata dalla concentrazione del potere economico e politico.
Le concezioni che considerano realizzata o realizzabile nella società capitalista l’eguaglianza reale sono per Gramsci “un derivato logico delle più scempie e «razionali» teorie democratiche” (6, 82: 756) fondate sull’utopia, regressiva dopo lo sviluppo del materialismo storico, di una “«natura umana» identica e senza sviluppo” (6, 82: 756) [3]. Tale rappresentazione, pur avendo avuto un portato storico progressivo, è divenuta reazionaria in quanto impedisce di cogliere la necessità di conquistare storicamente l’eguaglianza sostanziale fra gli uomini. Del resto, la stessa eguaglianza formale è una conquista storica e come tale va difesa dai tentativi di renderla inoperante da parte delle forze reazionarie.
D’altra parte Gramsci, pur ponendo in rilievo il portato storico del concetto astratto di eguaglianza fra gli uomini, accentua la differenza fra eguaglianza formale e concreta, mostrando come sia impossibile realizzare quest’ultima senza “spezzare” un sistema fondato sulla separazione fra mezzi di produzione, in mano ad una minoranza, e forza-lavoro quale unica proprietà della maggioranza. Perciò egli ricorda come persino Croce ritenesse validi i concetti di democrazia ed eguaglianza unicamente se “conditi” con la filosofia della prassi che li rende reali [4]. Il limite principale del sistema rappresentativo borghese è, difatti, che “la razionalità storicistica del consenso numerico è sistematicamente falsificata dall’influsso della ricchezza” (13, 30: 1625).
Gramsci rigetta, dunque, la rappresentazione mitologico-religiosa di una “natura umana” presupposta al divenire storico che costituirebbe il fondamento reale delle utopie egualitarie. La natura umana, in effetti, non è presente nel singolo individuo ma esclusivamente nel processo di sviluppo del genere umano. Dunque, la natura umana non è altro che questa stessa storia in continuo divenire attraverso “una «concordia discors» che non parte dall’unità, ma ha in sé le ragioni di una unità possibile” (7, 38: 887). Non si dà, quindi, un “uomo in generale” che sia eguale a un altro, ma la natura umana “si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali” che sono espressione di diversi raggruppamenti sociali di individui “che si presuppongono” e “la cui unità è dialettica, non formale” (ibidem). I caratteri del singolo sono solo una determinazione della natura umana ed emergono in contrapposizione, in primo luogo sociale, con quelli di un altro uomo.
Anche sul piano della coscienza si sviluppano concezioni più o meno ampie dell’ideale di eguaglianza su cui si fonda la sovranità popolare che è stata posta come fondamento della democrazia moderna. Il progressivo protagonismo delle masse sul piano politico, in effetti, ha portato con sé la scissione degli intellettuali moderni in differenti correnti, portatrici di concezioni differenziate dell’eguaglianza fra gli uomini. I padri del liberalismo tendevano a limitare l’eguaglianza ai proprietari bianchi e maschi dei popoli coloniali, mentre i loro moderni seguaci, pur dovendo abbandonare tali limitazioni, si oppongono a ogni forma d’intervento statale volto a favorire la partecipazione attiva dei gruppi sociali meno agiati alla vita politica. I democratici si battevano contro ogni vincolo di razza e genere e oggi sostengono l’intervento dello Stato per consentire una maggiore partecipazione dei ceti sociali più deboli, senza tuttavia porre in questione il diritto di proprietà privata. Quest’ultima è, infine, rimessa in discussione dai socialisti e dai comunisti, i quali considerano l’eguaglianza su cui si fonda la democrazia borghese solo formale e astratta, giacché esclude dal concreto esercizio della sovranità le masse lavoratrici. In tal modo, tanto i socialisti quanto i comunisti sostengono e si battono per realizzare una concezione più ampia della democrazia. L’eguaglianza reale richiede il superamento – per i socialisti graduale, per i comunisti rivoluzionario – di ogni ostacolo posto dalla differenza dei rapporti di proprietà all’effettiva partecipazione anche dei lavoratori manuali alla vita politica.
Dal punto di vista degli intellettuali la differenza si pone attraverso il loro differente rapportarsi alle masse. L’intellettuale liberale si pone con un senso di superiorità ritenendole naturalmente incapaci di raggiungere il suo piano. Il democratico ne sarà al contempo affascinato e distaccato, sentirà il dovere di aiutarle proprio in quanto dotato d’una sensibilità superiore. Il socialista si porrà al loro fianco solo nella misura in cui esse gli riconosceranno il suo ruolo dirigente. Solo il comunista appare disponibile all’ascolto delle masse e alla lotta per il reale superamento della loro funzione in quanto separata, ponendo in discussione la stessa dicotomia fondamento delle società classiste fra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale.
Note:
[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume II, p. 886.
[2] Per dirla con Gramsci: “è con il nascere e lo svilupparsi delle disuguaglianze che il carattere obbligatorio del diritto andò aumentando, così come andò aumentando la zona dell’intervento statale e dell’obbligazionismo giuridico” (6, 98: 773).
[3] Si tratta della concezione dell’eguaglianza antecedente la concezione materialistica della storia, secondo cui “tutti gli uomini sono fondamentalmente uguali nel regno dello Spirito (= in questo caso allo Spirito Santo e a Dio padre di tutti gli uomini)” (6, 82: 756).
[4] Come osserva a tal proposito Gramsci: “nel volume Cultura e vita morale (..) egli [Croce] afferma che, nonostante le sue tendenze naturaliter democratiche (poiché il filosofo non può non essere democratico), il suo stomaco si rifiutò di digerire la democrazia, finché essa non prese qualche condimento di filosofia della praxis, la quale, «cosa notissima, è imbevuta di filosofia classica tedesca»” (10, 41: 1318).