Dario Fo e Bob Dylan, menestrelli diversi

Due cantastorie, uniti da un Nobel per la letteratura "anomalo". Due figure così popolari e così diverse.


Dario Fo e Bob Dylan, menestrelli diversi Credits: AgenSIR

Per una singolare coincidenza, nella stessa giornata dello scorso 13 ottobre si sono inseguite le notizie della morte di Dario Fo e del conferimento del premio Nobel a Bob Dylan, quasi a voler sottolineare il nesso tra due assegnazioni del premio Nobel per la letteratura ritenute da molte parti “anomale”.

Già nell’ottobre del 1997, infatti, l’assegnazione a Fo dello stesso premio destò riserve e perplessità da parte dei molti puristi della tradizionale concezione della letteratura.

Si disse che la sua opera era soprattutto legata a capacità di improvvisazione e di rappresentazione estemporanea più che di elaborazione letteraria; che era opera di grande attore e teatrante più che di autore e letterato; che si risolveva nell’oralità più che nella scrittura.

Perplessità e riserve via via più sfumate, man mano che, anche per merito del conferimento del Nobel, è stata meglio studiata e compresa la vasta produzione di Dario Fo, con tutto il suo portato di contenuti di storia delle tradizioni popolari, dei linguaggi e delle forme dell’arte espressiva, ma che indicano bene l’immediata reazione di fastidio della cultura ufficiale nei confronti dell’apertura e del riconoscimento verso il mondo sommerso delle culture alternative (la motivazione dell’accademia svedese in questo era esplicita: “Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”).

Qualcosa di simile sembra riproporsi oggi, a quasi vent’anni di distanza rispetto alla assegnazione a Bob Dylan del premio Nobel per la letteratura, da molti criticato per ragioni apparentemente di mera forma: molto ricorrenti le affermazioni del tipo “Dylan è un grande, ma che c’entra con la letteratura?” (Alessandro Baricco), oppure “Dare il Nobel a Dylan è un atto fondamentalmente antiletterario” (Laura Miller, editorialista letteraria di Slate). Affermazioni che dietro il loro aspetto “metodologico” mostrano invece tutta la loro sostanza di tipo reazionario.

Nessuno, infatti, può sensatamente asserire che la dimensione dell’oralità o la presenza dell’elemento musicale siano ragioni sufficienti a porre “fuori gioco” una produzione indubbiamente letteraria come quella del teatro dell’arte o dei testi delle canzoni, già per il fatto stesso che il nesso tra oralità, improvvisazione, musica e teatro, poesia, ecc. è antichissimo, fondante e sempre presente in tutte le esperienze letterarie.

Inoltre, è ormai giustamente obsoleta una visione della letteratura come luogo chiuso delle forme classiche in cui avrebbero cittadinanza soltanto i generi consolidati dalla tradizione, essendosi affermata - sotto la spinta decisiva delle elaborazioni ispirate dal materialismo storico - una definizione ampia di “letteratura” come comprensiva di tutte le forme e i generi in cui si esprime, attraverso l’uso del linguaggio, la complessità sociale.

Non è difficile, quindi, capire che le critiche rivolte oggi al conferimento del Nobel (a Dylan), come quelle di vent’anni fa (a Fo), dietro la difesa dei veri contenuti di una presunta “vera letteratura”, rivelano la contraddizione tra la volontà di difesa di un ordine sociale in cui restino egemoni i valori borghesi rappresentati dalla cultura tradizionalmente organizzata e il vasto mondo delle espressioni popolari, certamente letterarie, ma non egualmente accettabili (dalle classi dominanti) in ciò che rappresentano.

In questa luce leggiamo quindi i clamori delle cronache dedicate contemporaneamente a queste due figure del Nobel letterario “anomalo”. Due figure così popolari e così diverse.

L’uno menestrello intellettuale, un po’ radical chic, ma sempre proteso verso la realtà sociale, dal mondo contadino alle occupazioni delle fabbriche, dagli omicidi sul lavoro a quelli di Stato. L’altro, menestrello della canzone impegnata, poeta delle lotte civili e pacifiste, cantore della giustizia. Amato da almeno tre generazioni che intonano da sempre il suo “Blowing in the wind” .

Dario, più che un letterato, era un cantastorie. Iniziò a raccontarle a quattordici anni ai viaggiatori sul treno che lo portava al liceo Brera di Milano. Fra lazzi e frizzi da giullare qual era, si esibiva sulla strada ferrata come su un palcoscenico, del quale peraltro non ebbe mai veramente bisogno.

Il burlesque era il genere che lo caratterizzava pienamente. Irridente e irriverente verso tutti, dissacratore del Papa e del governo, da buffone di corte, negli anni Sessanta trasforma la sua satira popolare in messaggio politico. E inizia a denunciare tutto e tutti, dissente e denuncia. Protesta, affabulando nei suoi spazi teatrali con un pubblico di cui vuole la vicinanza anche fisica, per creare empatia fra il narratore e i suoi spettatori. Perché il cantastorie non vuole palcoscenico, vuole il suo pubblico accanto a sé. Il sodalizio con Franca Rame non fa che rafforzare il suo pathos. Registi di se stessi, mai con un copione rigido e battute da memorizzare. Incompatibile con il cinema, ma anche con l’emergente potere mediatico della tv. Correva il ‘62 e Fo e la Rame ne prendono le distanze “per divergenze artistiche e ideologiche con i dirigenti Rai”.

Da allora diventa quasi un tuttologo dell’arte. Non solo teatro, non solo storie inventate con quel linguaggio un po’ rinascimentale, un po’ inventato, il “gibberish”, ma anche pittura, romanzo, politica. Ma sempre e soprattutto teatro. Fo è un demiurgo, un accentratore. Dove c’è lui ci sono lazzi e ghigni, disegna e racconta contemporaneamente. Quando va via sembra ancora che sia lì. Così lo descrive chi lo ha conosciuto ed è stato sommerso da questo geniale uragano di vitalità e creatività.

Alla fine della sua lunga parabola, se n’è andato Dario Fo, sotto un cielo a 5 stelle, a lui divenuto così congeniale. Infatuato perdutamente del vate Casaleggio e della sanguigna oratoria di Grillo. I grillini lo adorano e lo avrebbero voluto “President forever”. Non ce l’hanno fatta. Dario con un lazzo e quel sorriso aperto e un po’ beffardo li ha lasciati orfani della sua incondizionata approvazione.

E di Bob Dylan quanto se ne può parlare, raccontare, cantare, noi che abbiamo condiviso profondamente i suoi messaggi, vivendo on the road l’epoca delle lotte sociali e della contestazione giovanile sulle note di Like e Rolling Stone? Cosa si può dire di un menestrello-poeta cantautore ancor oggi evergreen, sia pur cupo, solitario, quasi spocchioso?

Bob è un menestrello produttivo in musica, quanto silenzioso e discreto nella comunicazione. Nulla o poco si conosce della sua vita privata. Sono i suoi testi a parlare di lui, del suo pensiero per i diritti civili, il pacifismo e l’impegno sociale. Sempre schierato al fianco della povera gente e per la difesa dei diritti umani. Il cantastorie Bob, nella sua immagine pubblica diventa un mito, il migliore forse dello star system internazionale.

Fo e Dylan, dunque, due Nobel inconsueti per due menestrelli diversi, entrambi interpreti eccezionali della nostra storia.

Due Nobel in cui si rinnova il tentativo di “allargare il recinto della letteratura”; uno sforzo apprezzabile da parte dell’élite intellettuale svedese, ma certamente non sufficiente perché non basta includere nelle forme riconosciute anche una rappresentanza delle culture popolari.

È necessario che ci sia una ridefinizione complessiva delle forme e dei contenuti della letteratura, come di tutta la sovrastruttura intellettuale in cui si esprime la società globale. Perché il folklore e la cultura popolare (come già ampiamente scrisse Gramsci) non sono soltanto una delle tante forme di espressione artistica, ma sono la parte necessaria del percorso in cui avviene il coinvolgimento delle grandi masse e se ne attua il protagonismo senza il quale non si costruisce il nuovo ordine della vita sociale e culturale.

Ai due menestrelli diversi, però, pur con tutte le caratteristiche anche contraddittorie delle loro storie, va comunque dato merito di esser stati parte di questo percorso e un meritato plauso alla loro arte.

22/10/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: AgenSIR

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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