La critica alla trascendenza platonica
La critica più radicale di Aristotele a Platone riguarda la trascendenza: Platone ha la pretesa di separare l’essenza, cioè la forma, il principio delle cose, dalla sua esistenza, ponendo la prima nel presunto mondo della idee e fa ciò per risolvere il problema del divenire e della molteplicità che sembrano inevitabilmente sfuggire alla presa della scienza. Così, ad esempio Pericle è sempre Pericle sia da bambino che da anziano, anche se tutto muta in lui: deve esistere, dunque, qualcosa che permane nel cambiamento, qualcosa di non visibile che non muta, la sua essenza appunto, cioè l’idea di uomo. Inoltre, ad esempio, Pericle, Alcibiade e Temistocle sono diversi fra di loro, ma c’è qualcosa che li accomuna, qualcosa che è identico in ognuno di loro, la loro essenza, cioè l’idea di uomo, che è trascendente e non cambia, cambiano solo gli uomini sensibili.
La sostanza
Per Aristotele, al contrario di Platone, non ha senso cercare il principio delle cose al di fuori delle cose stesse, le idee platoniche sono ai suoi occhi degli inutili doppioni, sono dunque un principio antieconomico, che invece di rendere più semplice la comprensione della realtà, la complica inutilmente. Così tornando all’esempio precedente Pericle per Aristotele resta sempre Pericle, sebbene fra il neonato e l’anziano sembra mutare tutto, in quanto al di là dei cambiamenti visibili, c’è in lui qualcosa che permane identico, una sostanza – alla lettera ciò che sta sotto, cioè un substrato – che, a differenza dell’idea platonica, è individuale e può, quindi, spiegare ontologicamente il singolo individuo, il suo permanere identico a se stesso nel divenire. La sostanza è, dunque, spiega Aristotele un’unione indissolubile, cioè un sinolo, di materia e forma. Tornando all’esempio di Pericle, costui è caratterizzato dall’avere una forma specifica, quella di “uomo”, che organizza la materia, cioè la carne e le ossa in un modo determinato, unico. Mentre la forma è comune a tutti gli altri uomini, quella particolare organizzazione, quel rapporto unico tra la forma e la materia determinata, quel determinato sinolo caratterizza Pericle come individuo, lo rende unico. La forma è propriamente l’essenza, non più trascendente come in Platone, ma immanente in Aristotele, è l’elemento attivo, determinante, ciò che caratterizza l’ente e lo distingue da ogni altro; la materia, al contrario, è per Aristotele l’esistenza, l’elemento passivo.
Gli enti hanno in sé la propria ragione di essere
Da ciò si sviluppa una differenza essenziale della filosofia aristotelica rispetto alla filosofia platonica: per Aristotele: in primo luogo, gli enti hanno in sé la loro essenza, possiedono la propria ragion d’essere. Il mondo “visibile” viene quindi rivalutato, ha un proprio fondamento ontologico; in secondo luogo, per la stessa ragione il mondo dell’esperienza ha una propria razionalità e può essere oggetto di conoscenza scientifica, anche se in ogni caso è necessario andare al di là delle apparenze, dei fenomeni per individuarne le essenze. Si pensi, ad esempio, ai gesti opposti che caratterizzano i due filosofi nella Scuola di Atene di Raffaello, con Platone che indica in alto, in direzione del mondo trascendente delle idee e Aristotele che, al contrario, indica la necessità di rimanere con i piedi per terra, nella dinamica immanente dell’unico mondo reale.
L’accidente
Non tutto ciò che esiste ha secondo Aristotele una spiegazione razionale e necessaria. A tale proposito Aristotele distingue la sostanza dagli accidenti. Mentre la sostanza è necessaria in quanto rappresenta la struttura, ciò che caratterizza un ente, ad esempio “Pericle è un uomo”, l’accidente è una qualità, una caratteristica casuale, ad esempio Pericle è triste, Pericle indossa un determinato vestito, si trova in un determinato luogo, ecc.. L’accidente rientra nelle definizioni di “essere”, ma non esprime la razionalità della cosa, la sua ragion d’essere, né ne può dare una spiegazione scientifica. Non indica una caratteristica necessaria di Pericle, ma puramente accidentale.
Il piano della razionalità dell’esistente, che per Platone era l’idea, per Aristotele diviene la forma: conoscendo la forma conosciamo l’universale che è l’oggetto della scienza.
Le sostanze prime e le sostanze seconde
Oggetto della scienza, sostiene Aristotele, di ogni scienza, è la sostanza, che prende di fatto il posto dell’idea platonica. In senso stretto esistono solo le sostanze prime (i singoli individui concreti) che non possono predicarsi di alcuna altra cosa, non posso quindi dire, ad esempio, “x è Socrate”. Le sostanze seconde sono, invece, i generi e le specie (ad esempio animale o uomo), che non esistono concretamente, ma solo come proprietà delle sostanze prime. Perciò, si potrebbe dire, che gli universali sono secondo la filosofia aristotelica sostanze seconde.
La filosofia prima studia l’essere in quanto tale
L’essere inteso come sostanza – per Aristotele ci sono infatti diversi modi di intendere l’essere – è trattato nella Metafisica che lo stagirita chiamava Filosofia prima, il cui ambito è lo studio dell’essere in quanto essere (ontologia), delle cause prime e di dio (teologia). Mentre le diverse scienze studiano l’essere determinato, ossia considerato in relazione a un certo predicato (l’essere in movimento o l’essere vivente, ecc.) la filosofia prima studia l’essere in quanto tale, ponendosi la domanda sul significato ultimo della realtà, sui princìpi che regolano il reale nel suo insieme.
Le cause prime
Oltre all’essere come sostanza nella Metafisica Aristotele studia le cause prime delle cose che, per lo stagirita, costituiscono il punto di partenza dell’indagine sul mondo fisico e sono quattro:
- la causa materiale, la materia di cui è fatto un ente, ad esempio la statua è fatta di bronzo;
- la causa formale, che dà ordine alla materia secondo un modello determinato, nel caso del nostro esempio il modello, il progetto della statua;
- la causa efficiente, quella da cui ha inizio il movimento, ciò che dà origine alla cosa, nel caso del nostro esempio: l’artista;
- la causa finale, ossia il fine per cui qualche cosa è fatta, nel caso del nostro esempio il compenso o la gloria dell’artista.
Le cause sono immanenti negli esseri naturali
Mentre negli esseri artificiali la cause sono distinte da essi, negli esseri naturali sono immanenti: una ghianda assimila la materia e la trasforma, è causa efficiente di questo processo, ha in sé la forma che la guida e si realizzerà nel momento in cui diverrà quercia. Le quattro cause sono unite nell’uomo che è forma, causa efficiente e causa finale del bambino.
La causa principale è la causa finale
Tra tutte le cause la più importante è per Aristotele la finale. Tutto in natura avviene, infatti, per Aristotele secondo un fine e nulla è dovuto al caso. Ad esempio un ghianda può accidentalmente produrre una quercia con un tronco ricurvo o dritto, ma ciò non cambia la sostanza della quercia, per cui la quercia non può divenire un ciliegio.
Il divenire: potenza e atto
Il concetto aristotelico di sostanza risolve il problema del divenire, costituendo ciò che rimane stabile nel cambiamento. Ma come e perché avviene il cambiamento? Per Aristotele non è casuale, ma è sempre indirizzato verso un fine preciso: una ghianda, ad esempio, diviene quercia e non potrà mai diventare ciliegio. Il processo di trasformazione è, quindi, guidato dalla forma, la quale plasma la materia per sua natura informe (una pianticella di grano e una di orzo, ad esempio, assorbono dal terreno la stessa materia ma la organizzano in modo diverso). Il divenire è quindi teleologicamente orientato, indirizzato verso un fine, è per Aristotele passaggio dalla potenza all’atto. La potenza è la possibilità della materia di assumere una determinata forma (ad esempio il pulcino è una gallina in potenza), l’atto (ossia l’entelechia, la realizzazione, il compimento) è invece espressione della forma ed è la realizzazione di una finalità specifica (la gallina, ad esempio, è pulcino in atto), nell’atto la cosa raggiunge la perfezione della propria natura. Nello sviluppo biologico ogni stadio è atto rispetto al precedente e potenza rispetto al successivo: il pulcino, per tornare al nostro esempio, è atto rispetto all’uovo, ma potenza rispetto al gallo.
Come avviene il passaggio dalla potenza all’atto
Ma perché avviene il passaggio dalla potenza all’atto? In quanto alla potenza è sempre connessa una privazione, una mancanza. Quindi il divenire ha origine da una mancanza, dalla privazione e si manifesta con il passaggio dalla potenza all’atto, secondo un percorso già tracciato (la potenza è intesa come necessità, come possibilità a senso unico: dal seme, ad esempio, necessariamente nascerà la pianta, da una ghianda una quercia).
Priorità temporale e priorità logica
Anche se cronologicamente la potenza precede l’atto, l’atto è secondo Aristotele prioritario dal punto di vista metafisico e logico-concettuale, perché l’atto costituisce la ragion d’essere dell’intero processo e in quanto noi definiamo la potenza a partire dall’atto: chiamiamo ad esempio costruttore colui che ha la capacità di costruire. Se cronologicamente la potenza precede l’atto, in ogni caso ogni essere in potenza deriva da un essere in atto: ad esempio un seme (potenza) precede la pianta (atto), ma il seme deriva da un pianta in atto. Inoltre l’atto precede la potenza perché costituisce la causa finale del divenire di ciò che è in potenza e, quindi, deve già esistere per dare una direzione al movimento, al divenire. Per queste ragioni l’atto è secondo Aristotele superiore alla potenza: l’atto è perfezione e la potenza è imperfezione e tutto ciò che è necessariamente ed eternamente deve essere in atto.
L’idea come forma immanente di ogni cosa
Strutturalmente il divenire è spiegato in modo simile a Platone, per il quale rappresentava la tendenza dell’esistente ad avvicinarsi al proprio modello, l’idea. In Aristotele l’idea diviene immanente, diviene forma della cosa, ma continua a rappresentare la causa finale del processo. Comune con Platone è, quindi, la spiegazione della realtà in senso teleologico. La differenza principale è che per Aristotele ogni essere può realizzare la propria natura con il passaggio dalla potenza all’atto, mentre per Platone ogni essere tende alla perfezione dell’idea senza poterla mai realizzare. Per Aristotele il divenire non è il passaggio dall’essere al non essere (per questo il divenire era ritenuto impensabile da Parmenide), ma il passaggio da un certo tipo di essere (la potenza, ad esempio il pulcino) ad un altro tipo di essere (l’atto, ad esempio la gallina).
La materia prima e la forma pura
Ora, se tutti i movimenti vanno da una materia a una forma, questa catena presuppone due termini estremi: da un lato la materia pura, priva di determinazioni, che non coincide neanche con i quattro elementi, ma è una sorta di materia madre, di cui aveva già parlato Platone nel Timeo. Essendo la materia prima assolutamente indeterminata è, secondo Aristotele, una pura nozione teorica, un concetto limite che noi ammettiamo come base o sostrato di ogni divenire; d’altra parte il divenire presuppone una forma pura o atto puro, cioè una perfezione completamente realizzata. Questa forma pura costituisce, secondo Aristotele, la sostanza più alta dell’universo, la sostanza immobile e divina, che è l’oggetto della teologia.
La concezione aristotelica di dio
Nella metafisica (e nella fisica) Aristotele fornisce una celebre prova dell’esistenza di dio che avrà molta fortuna nei secoli, essa è tratta dalla cinematica, ossia dalla teoria generale del movimento. Aristotele afferma che tutto ciò che è in moto è necessariamente mosso da altro. In questo processo di rimandi non è possibile risalire all’infinito, poiché rimarrebbe inspiegato il movimento iniziale: ci deve per forza essere un principio primo e immobile, causa iniziale di ogni movimento possibile. Si noti come per Aristotele rimanga valida la concezione di Platone per cui la materia non può avere in se stessa la causa del proprio movimento, secondo un punto di vista opposto a quello di Democrito.
Il motore immobile
Aristotele identifica il motore immobile con dio e gli riferisce una serie di attributi:
1. dio è atto puro, cioè privo di potenza, poiché la potenza è possibilità di movimento, mentre dio è immobile e non è soggetto al divenire;
2. dio è pura forma o sostanza incorporea, poiché non può contenere in sé alcuna materia che è potenza;
3. dio è essere eterno, causa del movimento dell’universo;
5. dio è causa finale, infatti come può muovere un motore che è immobile? Non può essere causa efficiente, ma è appunto causa finale, cioè oggetto d’amore, come l’amato pur rimanendo fermo attira il movimento dell’amante verso di sé (come una sorta di calamita);
6. dio è perfezione, che attrae verso di sé la materia: l’universo è considerato da Aristotele come lo sforzo della materia verso dio, desiderio di prendere forma. Quindi non è tanto dio che ordina o forma il mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a dio, si auto-ordina e si auto-determina, assumendo le varie forme delle cose. L’essere è dunque per Aristotele un processo eterno verso la forma, un processo che non si esaurisce mai, perché la materia non può mai risolversi nella forma pura;
7. dio è pensiero di pensiero. Essendo perfezione massima, atto puro, non è secondo Aristotele materiale, quindi è pura intelligenza, puro pensiero. Ma cosa pensa dio? Essendo perfetto non può che pensare la perfezione cioè sé medesimo (pensare ad altro, implicherebbe la potenzialità di conoscere, ma in dio non vi è alcuna potenzialità).
Le sfere celesti
Questa sostanza non è però unica: dio nella Fisica aristotelica è il motore del primo cielo, gli altri cieli presuppongono altri motori immobili, sicché le sostanze immobili saranno tante quante le sfere celesti. Si tratta di una concezione monoteista o politeista? si domandano ancora oggi gli interpreti.
Differenze della concezione aristotelica della divinità rispetto alla cristiana
Dal momento che la chiesa cattolica farà dell’aristotelismo la base della sua concezione filosofica del mondo è bene sottolineare le differenze fra la divinità cristiana e quella di Aristotele. In particolare quest’ultima, a differenza della cristiana:
- non crea il mondo dal nulla, ma si limita a ordinarlo;
- il dio di Aristotele non conosce e non ama il mondo, è solo l’amato e non l’amante (l’amante, come sosteneva già Platone, desidera ciò di cui è privo);
• il dio di Aristotele non è provvidenza e non si cura degli esseri, è statica perfezione che si bea per l’eternità di se medesima.