A riaffermare che un altro paese è possibile e che non è necessario seguire il modo di produzione capitalistico nel suo grigio viale del tramonto, ci hanno pensato ancora una volta i lavoratori salariati, questa volta di Alitalia. Nonostante la campagna a tamburo battente dei mezzi di comunicazione di massa, del governo e degli stessi sindacati neocorporativi, tutti pronti a riaffermare che l’unico futuro possibile è la logica nefasta di difendere il posto di lavoro sacrificando ulteriormente i salari, accrescendo disoccupazione e sfruttamento, i lavoratori hanno risposto con un sonoro No. Nonostante il governo avesse affermato, il giorno stesso delle elezioni, che non esisteva alternativa alla logica liberista imposta dal management italo-arabo di Alitalia, che la prospettiva di una nazionalizzazione della compagnia era impensabile, i lavoratori hanno rivendicato la loro dignità recandosi in massa alle urne – oltre il 90% di votanti – e affermando con quasi il 70% dei voti il rifiuto della perversa logica del pensiero unico dominante.
Il fondamento materiale dell’ideologia dominante, a dimostrazione che anch’essa ne ha bisogno per apparire credibile, è che non ci sarebbero le risorse economiche necessarie in una fase di crisi. Omettendo di ricordare che la crisi è stata utilizzata dalle classi dominanti, con la piena complicità delle classi dirigenti a esse più che mai asservite, per estorcere quote crescenti di plusvalore ai salariati, riducendo il numero degli occupati, per costringere gli altri ad accettare un aumento dei ritmi e degli orari di un lavoro ulteriormente precarizzato, a fronte di un salario progressivamente ridotto.
Senza contare che, il giorno stesso in cui i lavoratori si recavano alle urne, il governo discuteva con il ritrovato “amico americano” – che finalmente, rotti gli indugi populisti della campagna elettorale, ha riassunto il ruolo di “poliziotto cattivo” dell’imperialismo transnazionale, bombardando la Siria e minacciando la guerra atomica alla Corea – la richiesta di aumentare ulteriormente la propria spesa militare, a favore della Nato da sempre controllata dagli Stati Uniti. Dunque, i circa 25 miliardi fino a ora stanziati a favore dell’Alleanza atlantica dal governo italiano, in parte significativa in armi di distruzione di massa, non sarebbero sufficienti, ma dovrebbero aumentare fino a raggiungere i 40 miliardi.
Rimanendo prigionieri di questa logica per cui l’Italia non potrebbe permettersi una compagnia di bandiera – perché le risorse prodotte dai lavoratori debbono essere in massima parte impiegate nel pagamento degli interessi sul debito, a favore della speculazione finanziaria, per massimizzare i profitti e le rendite e aumentare la potenza distruttrice della Nato – il nostro paese non avrebbe un futuro. A ribadirlo è l’ultimo report dell’Istat sugli indicatori della popolazione, secondo il quale anche quest’anno la popolazione del nostro paese è ulteriormente decresciuta, perdendo quasi 90.000 abitanti, l’equivalente di un capoluogo di provincia. Nonostante già l’anno precedente la denatalità avesse raggiunto il suo massimo storico, essa è di nuovo sensibilmente cresciuta. A dimostrazione che tale decrescita dipenda essenzialmente dalla crisi di sovrapproduzione, il tasso di natalità è ormai divenuto la metà di quello raggiunto negli anni del boom economico. Ciò fa sì che il numero di figli per donna sia calato al punto tale di essere di quasi il 40% inferiore a quello necessario per mantenere stabile la popolazione.
D’altra parte quello che resta del sistema pensionistico e sanitario, conquistato dai lavoratori con le lotte degli anni sessanta e settanta, ha consentito un aumento della vita media anche delle classi meno abbienti, facendo crescere di conseguenza l’età media della popolazione. Al punto che il numero degli ultranovantenni è triplicato rispetto a quindici anni orsono. Di fronte a questi dati si comprende la preoccupazione delle classi dominanti a livello internazionale che, ormai da oltre un ventennio, attraverso i propri principali strumenti come il Fondo monetario internazionale, sostengono che sarebbe indispensabile aumentare sensibilmente l’età pensionabile, tagliare pesantemente le pensioni e, considerato che prevenire è meglio che curare, precarizzare al massimo l’occupazione. Tanto che oggi – nonostante nel nostro paese le giovani generazioni di precari, per non parlare degli immigrati, continuino a versare nelle casse dello Stato contributi pensionistici essenzialmente a fondo perduto – l’età pensionabile è divenuta la più elevata d’Europa, malgrado il livello medio delle pensioni sia crollato ai livelli più bassi.
D’altra parte sarebbe ancora una volta, in un’ottica neo-malthusiana, l’andamento demografico a rendere necessario un ulteriore aumento dell’età pensionabile e, con il crescente implemento della precarietà, una ulteriore diminuzione delle pensioni medio-basse. Ovviamente tale logica, apparentemente inoppugnabile si fonda su una omissione di fondo, ovvero che tale attacco al salario differito, cioè alle pensioni, non è dovuto a un destino cinico e baro, ma al mantenimento di un modo di produzione che sempre più palesemente ostacola lo sviluppo delle forze produttive, pur di difendere dei rapporti di proprietà utili a una minoranza sempre più ristretta di persone, che vivono nel lusso più sfrenato sfruttando il lavoro e la disoccupazione della restante parte della società.
A dimostrazione di ciò, basta continuare a seguire l’indagine Istat per rendersi conto di come l’unico freno a questo progressivo invecchiamento della popolazione sia stato, negli ultimi anni l’immigrazione. Il problema è che con la crisi e con la necessità della classe dominante – da cui dipende l’ideologia dominante – di incrementare la guerra fra poveri, per impedire di mettere in questione i privilegi dei ricchi, anche la percentuale degli immigrati, rispetto al numero della popolazione costretta a emigrare, è in costante diminuzione. Tanto più che sono sempre più i giovani in età di lavoro a emigrare – al punto che il loro numero è triplicato in appena sei anni – per sfuggire all’incubo della sottoccupazione, della disoccupazione, del lavoro nero e, soprattutto al sud, del lavoro alle dipendenze della malavita organizzata.
Se, dunque, non saremo in grado di arrestare l’attuale restaurazione liberista, per la quale la stessa liberaldemocrazia sarebbe un lusso che non ci possiamo più permettere, a metà del secolo avremo un quarto della popolazione lavorativa in meno e un raddoppio degli anziani, anche se quest’ultimo dato statistico è alquanto discutibile, visto che non considera come il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita e l’aumento dell’età pensionabile produrranno un deciso abbassamento della speranza di vita dei ceti sociali medio-bassi. D’altra parte, a condizioni immutate, le proiezioni dell’Istat indicano che a metà del secolo l’indice demografico rischia di portare a un tracollo, visto che la diminuzione della popolazione sarebbe di tre milioni, raggiungendo gli otto milioni nel caso in cui fosse impedita l’immigrazione. La situazione è divenuta talmente paradossale che persino il papa ha esclamato: “siamo una civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio”. Anzi, dal momento che tale chiusura non è sufficiente, chi riesce a passare finisce sempre più spesso nei “campi di rifugiati”, che ormai il papa stesso equipara ai campi di “concentramento”. Ecco perché persino le parole del papa sono sempre più spesso censurate dai mezzi di comunicazione di massa.
D’altra parte, per chi si ostina a mettere in discussione il pensiero unico dominante, vi è la nuova legge sull’editoria, che sta accentrando nelle mani del governo la distribuzione dei residui fondi pubblici stanziati e, soprattutto, la legge sulla diffamazione a mezzo stampa. Quest’ultima, secondo il recente rapporto di Ossigeno per l’informazione – dal significativo titolo di Taci o ti querelo – basata sulle statistiche dello stesso Ministero della giustizia, ha prodotto un impressionante numero di querele “temerarie”, ovvero fatte al solo scopo di intimidire i giornalisti che ancora osano mettere in discussione i poteri forti.
Anche in questo caso, visto che prevenire è comunque meglio che curare, la logica del pensiero unico della restaurazione liberista sta producendo, a partire dal nostro paese, a un drastico calo nel numero dei lettori, che colpisce in particolare i settori sociali subalterni. I dati Istat, recentissimamente presentati alla fiera milanese di Tempo di Libri, sono davvero allarmanti: dal 2010 il numero di persone che non sfoglia nemmeno un libro all’anno è aumentato di almeno 4 milioni e trecentomila unità, raggiungendo quota 57,6%, ovvero tre milioni di italiani in età di lettura.
Tali dati sembrano confermare la demoralizzante diagnosi, secondo cui viviamo ormai in un paese privo di futuro. D’altra parte, allargando appena lo sguardo dalle miserie nostrane, possiamo agevolmente comprendere come l’attuale situazione non sia affatto il prodotto di un inevitabile destino – visto che nessuno ha più il coraggio di definirlo “provvidenza”. Anche le recentissime elezioni francesi sono indicative di un trend internazionale quanto mai interessante che mostra come, in particolare fra le fila dei più giovani subalterni, sia risorta la volontà di affermare che un altro mondo è non solo possibile, ma necessario e realizzabile. Ecco che, mentre la sinistra di governo precipita come in Grecia a un misero 6%, la Francia insoumise non è arrivata al ballottaggio a spese del Fronte nazionale – a dimostrazione di quanto l’ascesa della destra radicale sia resistibile – unicamente a causa dell’attentato che ha riprodotto la perversa logica dell’unità nazionale per la guerra al terrorismo.
Tanto più che non è il caso francese a essere un’eccezione, ma piuttosto quello italiano, come mostrano le ultime elezioni in altri paesi del sud Europa – come la Grecia, la Spagna e il Portogallo – in cui la forte spinta delle classi subalterne soprattutto giovanili ha prodotto un forte incremento dei voti ai partiti della sinistra radicale. Persino nei paesi con le più consolidate tradizioni capitaliste e imperialiste, coma gli Usa e la Gran Bretagna, da cui non a caso è partita negli anni ottanta la restaurazione liberista, vi è stata una netta crescita a sinistra delle forze – anche in questo caso in buona parte subalterne e giovanili – favorevoli a rilanciare una prospettiva socialista nel XXI secolo.
Al contrario purtroppo da noi tende ancora a prevalere quello che abbiamo definito il “gattopardismo di sinistra”, ovvero la cieca ostinazione a rilanciare la catastrofica prospettiva della sinistra di governo, secondo una logica perversa che mira essenzialmente a occupare le poltrone nelle istituzioni di uno Stato imperialista. Da qui l’insana nostalgia per il centro-sinistra di governo che ha condotto all’attuale irrilevanza le forze della sinistra radicale nel nostro paese.