Le ultime elezioni regionali e amministrative restituiscono, oltre alla sconfitta della sinistra di alternativa al centrosinistra, anche due dati sui quali dovremmo riflettere molto : la forte astensione dal voto e l’emorragia di voti che ha subito il Pd.
di Carmine Tomeo
Il Pd, in queste elezioni, ha perso molto meno degli oltre due milioni di voti di cui si parla con insistenza, se il confronto, anziché con le elezioni europee (tra l’altro “drogate” dall’annuncio dei famosi 80 euro) lo facciamo più coerentemente con quelle regionali del 2010 e con le stesse regioni dove si è votato lo scorso 31 maggio. In questo modo il risultato del Pd è molto meno drammatico (purtroppo) ed i voti persi si contano in poco più di 566mila. Certo non pochi, ma si può dire perciò che il Pd a guida Renzi ha perso il suo slancio? Forse è presto per dirlo e comunque il Pd non sembra interessato al consenso di massa quale sostegno della sua azione politica, mentre cerca il appoggio dei ceti forti. La stessa legge elettorale che è stata votata dal Parlamento è in questo senso un segnale chiarissimo: per governare senza consenso basta addomesticare la democrazia soffocando la possibilità di rappresentanza delle classi sociali più deboli e permettere un governo di minoranza. L’Italicum risponde a questa esigenza. Ma questa non è una situazione nuova. Non ci saremo mica dimenticati del referendum promosso dal comitato "Firmo, voto, scelgo" promosso tra l’altro da Veltroni, sostenuto praticamente dall’intero Pd, vero? Era il 2011 ed il Pd era quello di Bersani e puntava al superamento del Porcellum senza uscire dall’alveo del cosiddetto principio della governabilità e dei collegi uninominali, e praticamente costrinse Passigli a ritirare il suo referendum, ben più vicino ai principi democratici.
Questa rinfrescata della memoria è necessaria per dimostrare con uno degli esempi possibili (perché pare, purtroppo, ce ne sia ancora bisogno), che il Pd di Renzi non è un’anomalia di un Pd altrimenti votato ad una sana socialdemocrazia ma piuttosto la naturale evoluzione di quel partito ormai trasformato. E pertanto dirsi alternativi al renzismo, come troppo spesso si definiscono i tentativi o gli appelli all’unità della sinistra, concretamente non significa nulla, se non un gattopardismo di fatto.
Mettiamo insieme questi elementi e chiediamoci: “Il Pd ha perso le elezioni?”. Se al Pd non interessa la rappresentanza dei bisogni ma il governo, se c’è una legge elettorale che gli permette di governare rappresentando una minoranza, se in queste condizioni ha vinto in cinque regioni su sette, si può parlare di sconfitta del Pd? Forse no, purtroppo. E se l’astensione dal voto riguarda soprattutto i disillusi, quelli che subiscono maggiormente la crisi e le controriforme del governo, il Pd non ne esce forse più rafforzato nei suoi obiettivi di governo, visto che i ceti sociali che vi si dovrebbero opporre rinunciano a farlo con il voto? Sembrerebbe proprio di sì. Ma se così è, allora la sbandierata “crisi del Pd”, oggi, è più vicina all’essere un’illusione autoconsolatoria che una realtà.
E ora veniamo a noi: se il Pd non è in crisi e se intanto la sinistra non raccoglie che percentuali misere di consenso elettorale, si evidenzia palesemente il fallimento dei processi in corso di unità della sinistra di prospettiva sostanzialmente elettorale. Coloro che subiscono la crisi del capitalismo non hanno riconosciuto nella costituenda sinistra unita un soggetto che può contrastare le politiche di attacco al lavoro ed ai diritti in generale. D’altronde, come potrebbe essere diversamente? Stante la fase politica attuale, qualsiasi tentativo di contrasto alle politiche mosse contro i ceti sociali più deboli che si muova entro i confini elettoralistici è del tutto velleitario. Dentro questa prospettiva, nella quale di fatto si sono mossi i tentativi di unità della sinistra e continuano a muoversi anche quelli attuali, c’è spazio solo per fare la sinistra del centrosinistra, costretta inevitabilmente ad un velleitario minoritarismo rispetto al Pd. Il risultato elettorale ligure, in questo senso, è emblematico, per quanto si tenti di renderlo esemplare rispetto alla necessità di proseguire sulla strada di una costituente della sinistra. In Liguria le preferenze per il civatiano Pastorino presidente di regione superano di molto quelle per la lista di sinistra che l’appoggiava. Si può dire che a non essere premiata è stata la sinistra; mentre ha raccolto voti “l'unica proposta di centrosinistra”, per dirla con Pastorino che così ha definito la sua proposta politica.
Insomma, quello che emerge abbastanza chiaramente è che una costituente della sinistra che si proponga (come sta avvenendo) semplicemente su presupposti nominalistici ed elettoralistici è fallimentare in partenza. Un soggetto politico del genere non può dare risposte concrete ai bisogni delle classi subalterne, perché privo di un progetto politico realmente autonomo dal centrosinistra. Una vera alternativa, non semplicemente al renzismo ma alle politiche padronali, la si costruisce attorno ad un progetto politico di classe, fuori da “terre di mezzo”; un programma minimo di fase che abbia la prospettiva di classe per l’uscita dalla crisi e il superamento del capitalismo. Lo scopo di un progetto di questo tipo non è quello di ottenere un buon risultato al prossimo turno elettorale, ma la ricomposizione di classe contro le politiche padronali e neoliberiste.
La prospettiva non deve essere quella di eleggere un consigliere regionale o un parlamentare, ma la costruzione di un fronte di lotta che possa essere di efficace contrasto all’attacco ai lavoratori, alla scuola ed in generale ai ceti sociali più deboli. D’altronde questo dovrebbe essere il migliore insegnamento di Syriza, che ormai è l’esempio principale per chiunque ipotizzi una generica sinistra unita, invece troppo spesso ci si ferma superficialmente alla mera unità senza tenere conto dei processi sociali in campo.
Per percorrere questa strada, è ovvio, occorre che i comunisti tornino a svolgere un ruolo autonomo dalle dinamiche interne al centrosinistra o alle confinanti “terre di mezzo”, che creano temporanei spazi di riposizionamento ma che non sono utili nemmeno per soddisfare un istinto di sopravvivenza politica. Occorre perciò ridare un senso al radicamento sociale dei comunisti avviliti da un lento processo di consunzione. I soli annunci della centralità del ruolo dei comunisti non bastano e da tmpo, ormai, sono diventati poco credibili.