Populismo, bonapartismo e governo tecnico

Tutti i principali demagoghi e populisti che hanno caratterizzato la seconda repubblica italiana sono divenuti i più convinti sostenitori del governo tecnico di Mario Draghi, da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, da Beppe Grillo a Matteo Salvini.


Populismo, bonapartismo e governo tecnico

Una delle maggiori giustificazioni dell’avvento dell’ennesimo governo tecnico (siamo giunti, nel senso stretto del termine, al quinto), caratteristica ormai tipica della seconda repubblica liberale, è che costituirebbe il miglior antidoto al populismo e alla demagogia, divenuti anch’essi tratti peculiari della seconda repubblica [1]. Ma proprio il fatto che la tanto agognata alternanza del sistema liberale si sia sempre più risolta in un susseguirsi di governi tecnici e governi populisti dovrebbe far riflettere. Come dovrebbe far riflettere che oggi tutti i principali demagoghi e populisti che hanno caratterizzato la seconda repubblica italiana sono divenuti i più convinti sostenitori del governo tecnico di Draghi, da Berlusconi a Renzi, da Grillo a Salvini, dalla Lega a Forza Italia al M5s. 

Si tratta, pertanto, delle due più significative metamorfosi del liberalismo per continuare a mantenere il governo del paese anche dopo aver dovuto accettare, come un dato di fatto al momento difficilmente cancellabile, il suffragio universale. Del resto, sebbene quest’ultimo si sia affermato con grandi rotture rivoluzionarie, dalla Rivoluzione francese, alla primavera dei popoli del 1848, dalla Rivoluzione russa a la resistenza antifascista, è anche vero che il suffragio universale, una volta anestetizzato, sia divenuto uno strumento del populismo bonapartista, da Napoleone III a Bismarck [2]. Non a caso nella seconda repubblica i presunti opposti – che tendono in realtà a coincidere, come è necessario che sia – il populismo e i governi tecnici sono stati gli strumenti essenziali per l’affermazione in Italia di una deriva bonapartista, che sta finendo con lo stravolgere quel compromesso democratico che è stata la Costituzione italiana.

Del resto la tipica consorteria liberale, che aveva governato l’Italia dall’indipendenza al primo biennio rosso, espressione diretta degli interessi della grande borghesia e del suo blocco sociale, non poteva più reggere con l’affermarsi del suffragio universale. La grande borghesia, per continuare a governare il suo Stato, ha necessariamente bisogno di una base di massa, anche per non essere di nuovo costretta a ricorrere a quella fornita dal fascismo o dal mondo cattolico. Da qui l’alternanza che ha caratterizzato la seconda repubblica liberale fra governi tecnici e populisti al fine di ultimare la deriva bonapartista che mira a rendere del tutto inoffensivo per il potere della grande borghesia il suffragio universale. Così al governo Amato è succeduto il populismo referendario che ha portato a compimento, con l’introduzione dell’uninominale e del maggioritario, la transizione alla seconda repubblica. Abbiamo avuto il governo tecnico di Ciampi, al quale succedeva il governo populista di Berlusconi. Dopo il governo tecnico Dini abbiamo avuto i governi del centro-sinistra che hanno tentato di fondere i tre aspetti caratteristici della seconda repubblica: demagogia, bonapartismo e governo tecnico. Siamo così giunti al decennio del populismo berlusconiano. Al quale sono seguiti i governi tecnici di Monti e Letta, che hanno aperto la strada al governo populista di Renzi. A seguire il governo tendenzialmente tecnico di Gentiloni, ha aperto la strada al grande successo nelle ultime elezioni politiche del 2018 delle due più importanti forze populiste, ossia il Movimento 5 stelle e la Lega. Per tornare con Draghi a un governo tecnico, in grado di sussumere in sé tutte le principali forze populiste, lasciando l’opposizione parlamentare al populismo post-fascista

Come è stato a ragione osservato: “potere tecnocratico e populismo sono due fenomeni complementari e in gran parte coincidenti. Comune è la cultura di fondo che li alimenta e comuni sono anche gli obiettivi: la dissoluzione della rappresentanza democratica e la fine del primato della politica”. Del resto, “da tempo la migliore cultura costituzionalista europea (e anche americana) ci dice che populismo e tecnocrazia si alimentano a vicenda. E il caso italiano ne è una conferma quanto mai evidente da almeno trent’anni” [3].

Del resto con il governo Draghi la tragica spirale populismo-governo tecnico ha raggiunto, al meno per il momento, il suo apice. Il governo Draghi è stato presentato dall’ideologia dominante come il migliore antidoto al populismo e alla demagogia, ma lo stesso pensiero unico ha poi dimostrato l’inevitabilità del ricorso a un nuovo governo tecnico con tutto l’armamentario del populismo. In primo luogo con l’indispensabile delegittimazione degli organismi intermedi – a cominciare dai partiti politici – delegittimazione che, oltre a essere un luogo comune demagogico, costituisce un aspetto decisivo del cesarismo regressivo, che mira a riprodurre il rapporto diretto fra il capo politico e le masse, ridotte così nuovamente a plebe. In secondo luogo, la necessità del ritorno del governo tecnico è stato giustificato dall’ideologia dominante con tutto l’armamentario dell’antipolitica, da sempre sfruttata dalle tendenze neo-oligarchiche della restaurazione liberista in corso, a partire almeno dalla seconda repubblica. Peraltro tale argomento antipolitico era già presente nella fondazione stessa del concetto di governo tecnico da parte dell’ideologia dominante positivista nel diciannovesimo secolo. Terzo elemento proprio del populismo, di derivazione in questo caso romantica, è l’organicismo, per cui il governo tecnico Draghi avrebbe rappresentato nel modo migliore l’unità nazionale e/o repubblicana che sarebbero indispensabili in un momento storico in cui lo Stato di eccezione tende sempre più a essere normalizzato, altro aspetto caratteristico del piano inclinato del bonapartismo.

Come è stato a ragione osservato: “L’anti-politica diffusa dai media non ha mai raggiunto livelli così alti. Espressioni come «questo è il governo del Paese» o «l’unità è un dovere», usate da Draghi in Senato, così come l’individuazione mediatica dei partiti come unico potenziale ostacolo al dispiegarsi dell’azione governativa, richiamano il tipico organicismo del populismo conservatore, secondo cui la società è un organismo, un tutto indistinto, e le «fazioni», cioè le organizzazioni sociali e politiche portatrici di interessi e visioni di parte, sono equiparabili a una malattia che indebolisce il corpo monolitico della formazione sociale. Da un lato quindi la tecnocrazia è una delle tante forme del populismo, dall’altro produce per reazione altro populismo” [4].

Peraltro, proprio il compimento della deriva populista del governo di unità nazionale, sostenuto sostanzialmente dall’intero arco parlamentare, non può che favorire la deriva bonapartista, in quanto il governo tenderà a concentrare tutte le decisioni fondamentali nella mani di Draghi e del suo staff di tecnici, che ha preso subito il controllo della cassaforte del governo e che gestirà i miliardi che giungeranno, insieme alle condizioni capestro, dall’Unione europea. Non a caso, non solo Mattarella ha dato l’incarico a Draghi senza consultare i partiti politici, ma gli ha esplicitamente dato mandato di formare un governo che si ponga al di sopra delle forze politiche. Non a caso, sempre in evidente rottura con lo spirito democratico parlamentare della Costituzione, Draghi non ha detto nulla della politica che avrebbe inteso portare avanti nel momento in cui ha aperto la consultazione con i partiti, né gli ha minimamente coinvolti nella selezione dei ministri, calando il tutto dall’alto, proprio a dimostrare nel modo più brutale che tutte le decisioni importanti non proverranno certo dalla democrazia parlamentare, sovrana non solo secondo lo “spirito”, ma anche secondo la “lettera” della Costituzione. Senza contare che siamo già al terzo presidente del consiglio in questa legislatura che non solo non è stato eletto, ma che non è espressione di nessuno dei partiti presenti in parlamento

Altro aspetto caratteristico del cesarismo regressivo è la deriva in senso neo-corporativo dei principali sindacati, deriva che si è presentata immediatamente dopo l’affidamento dell’incarico a Draghi. Va sottolineato che se i fascisti per imporre il corporativismo al sindacato avevano avuto bisogno di utilizzare una violenza terrorista, nel caso dell’attuale neocorporativismo il sostegno al governo tecnico anti-politico di Draghi è giunta immediatamente e in modo spontaneo dal più importante e noto esponente del mondo sindacale

Alcuni dei tratti fondamentali del cesarismo regressivo del governo Draghi sono stati così riassunti: “il riferimento all’istruzione limitato all’estensione del calendario scolastico e al rafforzamento dei soli istituti tecnici (che può alludere a una prospettiva di dequalificazione della futura forza lavoro); una difesa del lavoro circoscritta a categorie come donne, giovani e autonomi, secondo Draghi le uniche colpite dalla crisi, con una lettura che non lascia molte speranze a precari e lavoratori manuali, magari non più giovani; il rigido riallineamento «atlantista» dell’Italia; una riforma del fisco ancora incentrata sul refrain della riduzione del carico fiscale, in particolare alle aliquote più alte; le politiche restrittive sui migranti; l’idea che nel mondo dell’economia e del lavoro debba sopravvivere solo chi sa adeguarsi ai tempi e ai modi della concorrenza internazionale, ribadendo però la centralità di settori come il turismo, che collocano buona parte dell’economia italiana tra le fasce semi-periferiche dell’economia internazionale” [5].

D’altra parte, il governo tecnico – non a caso sorto, ancora una volta, come governo del presidente – nasce proprio dalla crisi sempre più grave della politica italiana, a partire dalla sua espressione fondamentale: il partito politico, che ha perso sempre di più il proprio ruolo di protagonista – che aveva caratterizzato la prima repubblica nata dalla sconfitta del nazi-fascismo – a partire dallo scioglimento del Partito comunista italiano, che ha spianato la strada all’avvento della seconda repubblica liberale e al dominio sempre più incontrastato del pensiero unico, espressione degli interessi dei poteri forti nazionali e transnazionali. “In altri termini se oggi il capo del governo lo ha indicato direttamente il presidente della Repubblica – scegliendolo non tra gli eletti, non tra i capi di partito – è perché questa classe politica, tutta, ha dimostrato la sua inettitudine” [6].

 

Note

[1] Le caratteristiche fondamentali della seconda repubblica sono state già perfettamente colte e illustrate da Domenico Losurdo ne La seconda repubblica. Liberalismo, federalismo, postfascismo, Bollati Boringhieri, Torino 1994. 

[2] A questo proposito rinvio al magistrale studio di Domenico Losurdo: Democrazia e bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

[3] De Fiores, C., Governabilità ad ogni costo e sinistra vittima-carnefice, in “Il manifesto” del 17.02.2021.

[4] Caruso, L., L’ambivalenza di un nuovo esempio di cesarismo, in “Il manifesto” del 19/2/2021.

[5] Ibidem.

[6] Ardeni, P.G., Nel basso profilo della politica la causa del governo Draghi, in “Il manifesto” del 20.02.2021.

26/02/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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