L’involuzione del sistema elettorale in chiave maggioritaria ha ridotto costantemente i margini di democrazia e pluralismo all’interno del paese, schiacciando gli interessi delle classi lavoratrici all’interno di una compatibilità e subalternità agli interessi prevalenti di un’oligarchia sempre più ristretta che ha tentato – ed in molti casi è riuscita – l’imposizione dei propri interessi come gli interessi generali dell’intera comunità. Tutto questo è avvenuto all’interno di un quadro ideologico-culturale nel quale l’unica opzione possibile è apparsa quella di arricchire una ristrettissima cerchia di super ricchi a scapito degli interessi collettivi della comunità.
Le ragioni dell’instabilità del quadro politico italiano vanno ricercate proprio all’interno della dinamica economica e di classe nella quale la sperequazione sociale diventa sempre più acuta e le politiche da adottare risultano schiacciate da meccanismi di compatibilità sempre più stringenti ed oppressivi in quanto direttamente operanti a livello europeo ed internazionale. Il meccanismo europeo di stabilità impone logiche stringenti entro le quali debbono essere calate le scelte fondamentali di politica economica, tanto più che la stessa Unione Europea - per bocca del suo alto rappresentante Von Der Leyen - per tentare di far uscire i paesi dell’UE dalla perdurante crisi di sovrapproduzione in cui si sono cacciati, ha indicato nella corsa agli armamenti l’orizzonte in cui vanno direzionate le scelte fondamentali di politica economica nell’area. Quando la maggioranza dei cittadini non si sente minimamente rappresentata nei suoi interessi o, peggio, risulta sistematicamente attaccata – e con un tasso di violenza e drasticità crescente – da norme ed azioni politiche che sono in oggettivo contrasto con i suoi interessi il tasso di partecipazione attiva alla vita politica decresce progressivamente. L’astensionismo, tuttavia, lungi dal rappresentare una decisa presa di posizione verso la classe dominante ne legittima indirettamente l’operato, alimentando surrettiziamente l’idea per cui, non avendo alcun senso la volontà politica e l’azione trasformatrice ad essa connessa, ci si deve abituare a quella prospettiva priva di senso che è rappresentata teoricamente dalle posizioni ideologicamente dominanti nella nostra società. La gravissima crisi sociale in cui ci troviamo, tuttavia, opera anche nei confronti dei rappresentanti politici stessi della classe dominante, i quali, per effetto della crisi, bruciano in tempi brevissimi il limitato consenso che, grazie anche ad un'abile campagna mediatica a loro favore, sono riusciti a conquistare nel breve tempo di una legislatura. Nelle fasi in cui il consenso politico verso i partiti crolla vertiginosamente – come nel caso della crisi del Governo Berlusconi nel 2010 – l’oligarchia finanziaria sfrutta l’occasione per imporre figure di tecnocrati – Monti – che svolgono il compito di massacrare il corpo sociale per garantire profitti alla speculazione finanziaria – oppure si ricorre a governi tecnici quando l’azione populista di un partito di Governo – i cinque stelle – è risultata incompatibile con una parte degli interessi della classe dominante. Il governatore Draghi era talmente ortodosso nel perseguire gli interessi del capitale finanziario che ha fatto cadere il suo stesso governo per incapacità di trattare con gli interessi della piccola borghesia e a vincere le elezioni è stato l’unico partito – Fratelli d’Italia – che, opportunisticamente – si era collocato all’opposizione del Governo Draghi. Com’era prevedibile, il Governo Meloni, in coerenza con le forze d’ispirazione fascista, ha proseguito, radicalizzando, le scelte politiche di fondo operate da Draghi, sia in politica interna che in politica estera. Un punto su cui varrebbe la pena riflettere - magari con maggiore attenzione in un altro articolo - è il senso vero di questo accanito filoatlantismo portato avanti dal Governo e dai media italiani in questo preciso momento storico. Ad essere avvantaggiati momentaneamente dalla guerra sono i potentissimi oligopoli del settore energetico (Eni, Enel, etc) a cui vanno aggiunte le grandi banche – per effetto del rialzo dei tassi d’interesse – e le industrie degli armamenti. L’accresciuto tasso d’inflazione, invece, ha operato come una mannaia inflessibile sui salari dei lavoratori dipendenti ed indirettamente – attraverso la riduzione del potere d’acquisto dei lavoratori - sui consumi interni. La forbice tra ricchezza e povertà si allarga impietosamente ed è per questa ragione che – anche a causa della relativa perdita di consensi - il Governo Meloni punta ad accrescere gli elementi di bonapartismo che gli permettono, anche con un consenso ridotto – di ridurre ulteriormente i margini democratici e d’imporre una riforma dello Stato in chiave federalista e presidenzialista al tempo stesso. La riflessione che andrebbe operata, in questa difficile fase, ruota tutta intorno al problema del senso complessivo di una rappresentanza politica delle classi subalterne oggi, tenendo conto della riduzione drastica del tasso di democrazia nei paesi occidentali. Le politiche economiche di guerra, quasi sicuramente, accelereranno ulteriormente la riduzione degli spazi democratici in Italia, soprattutto sulle questioni internazionali; l’attacco ai lavoratori finalizzato a portare avanti queste politiche sarà ancora più pesante; l’orizzonte su cui dovrebbero concentrarsi prevalentemente i comunisti dovrebbe essere quello di accrescere l’organizzazione di questa graduale conflittualità che le politiche di guerra producono. Questo compito, che nell’orizzonte futuro dovrebbe svolgere una funzione prioritaria, non può assolutamente eludere il momento della ricerca del consenso e della costruzione egemonica all’interno della società. In un sistema parlamentare consolidato - com'è il nostro - non si può bypassare il momento della verifica elettorale, della ricerca del consenso intorno alle proprie idee nel contesto preciso del qui ed ora. Da soli oppure in coalizione con altre forze, i comunisti verificano la validità delle proprie idee e del loro operato cimentandosi con il difficile compito della ricerca del consenso. Non si tratta affatto di pensare che il cuore della politica si risolve intorno all’attività parlamentare, ma di utilizzare il parlamento come tribuna di denuncia delle malefatte della classe dominante, ma di una denuncia credibile, comprensibile dalle masse. Gli effetti devastanti della politica di guerra, ad esempio, debbono essere denunciati con forza, le masse popolari devono sapere che c’è una forza organizzata che si propone concretamente di far uscire l’Italia dalla guerra in Palestina ed Ucraina, i rappresentanti del blocco reazionario debbono aver timore del fatto che questo sentimento diffuso si possa tradurre in programma politico e, magari con l’operare stesso della realtà, in piattaforma per una nuova politica economica oppure per una differente politica estera. La proposta di Michele Santoro di una lista per la pace sembra intercettare un bisogno diffuso e, da questo punto di vista trova anche il nostro consenso, anche se, programmaticamente, non siamo d’accordo con l’astrattezza del pacifismo generico che Santoro esprime. Il vuoto politico che si è aperto con la mancanza di una forza che dica chiaramente in parlamento che le missioni vanno ritirate e che bisogna opporsi all’economia di guerra e al bonapartismo che ad essa è connesso, è un’esigenza impellente, anche per coalizzare un opposizione più marcata e decisa al fondamento delle politiche antipopolari del Governo Meloni, va tuttavia contrastato il tratto accentratore e narcisistico tipico dei giornalisti, e dello stesso Santoro, quasi sempre inebriati dalla popolarità che il mezzo informativo di massa produce e, proprio per questo, riluttanti alla costruzione di un percorso pienamente partecipativo che sappia infondere anima e passione nella costruzione stessa della lista e che permetta d’intercettare concretamente il malessere diffuso che si connette con il rifiuto delle politiche di guerra. Il consiglio che noi daremo ai promotori della lista è quello di aprire, di coinvolgere militanti e cittadini comuni nella costruzione, di non perdersi in organigrammi burocratico politicisti su chi eleggere, ma d’infondere energia, di sviluppare partecipazione, dibattito.