L’Italia rischia di essere ufficialmente sanzionata dall’UE non perché abbia superato la fatidica soglia del 3%, né perché ha presentato un disavanzo più grave dei precedenti governi – che in generale hanno fatto tutti, o quasi, peggio – ma perché non ha ridotto il debito. Anche in questo caso, però, l’attuale governo non è stato affatto maggiormente inadempiente dei precedenti. Senza contare che il debito pubblico italiano particolarmente preoccupante è bilanciato da un debito privato meno rilevante di quello presente in altre importanti economie europee e mondiali.
Ciò è il risultato di rapporti di forza fra le classi sociali differenti negli anni passati, per cui in Italia la restaurazione liberista, affermatasi pienamente in altri paesi europei, era stata contrastata da una più efficace lotta di classe dal basso. Proprio per questo i governi italiani avevano dovuto fare maggiori concessioni in termini di “stato sociale” rispetto ai paesi che oggi hanno minore debito pubblico, ma maggiore debito privato del nostro. Quindi, la scelta di sanzionare solo il debito pubblico e non il debito complessivo è l’ennesima riprova della natura ultraliberista dei trattati su cui si fonda l’UE.
Senza contare che l’Italia, dopo l’autoscioglimento del più grande Partito comunista del mondo occidentale, è stato il paese in cui con più ferocia si è abbattuta la restaurazione liberista, dal momento che da allora in poi la lotta di classe è stata condotta quasi unilateralmente dalle classi dominanti. Così l’Italia ha finito per essere la più ligia nell’applicazione delle regole volte a imporre in tutti i paesi dell’Ue una rigida politica liberista, sancite nel 1992 a Maastricht. Ecco che allora il nostro paese, annoverato ideologicamente fra i “pigs” (maiali), è venuto accumulando avanzi primari da record, doppi rispetto a quelli dell’“austera” Germania. In tal modo da allora, in termini assoluti, il nostro debito è aumentato quasi tra volte meno della Spagna, quasi due volte meno della Francia, facendo meglio della stessa Germania.
Tutto ovviamente a spese delle classi subalterne, che hanno pagato il progressivo venir meno della propria coscienza di classe. Tanto più che tali “sacrifici” imposti alle classi subalterne non hanno prodotto affatto una riduzione del debito pubblico, a causa degli esorbitanti e crescenti interessi che abbiamo diligentemente continuato a pagare in tutti questi anni, rischiando così di non riuscire a uscire mai dal diabolico meccanismo del debito, che non solo non si estingue, ma tende ad accrescersi sulla base di interessi da usura.
Tutto ciò sta a significare che l’attuale sanzione all’Italia non ha nulla a che vedere con le “leggi sacre dell’economia” e tanto meno con quelle della matematica, ma si tratta piuttosto di una sanzione politica, volta a colpire il populismo dell’attuale governo, che minaccia apertamente di rimettere in questione, in una prospettiva sovranista, la maggioranza ultra liberista che ha governato in questi anni l’Unione europea. Del resto il cialtronesco populismo del nostro governo, pronto a sparare a parole contro le politiche ultra liberiste dell’UE, per altro mai seriamente messi in questione dai partiti al governo nemmeno negli anni precedenti, non poteva che favorire la brama di profitto degli speculatori, pronti a scaricare i costi negativi della crisi sul governo meno credibile. Tanto che stiamo raggiungendo i momenti catastrofici vissuti sotto l’ultimo governo Berlusconi, che a forza di “bunga bunga” si addormentava nei summit internazionali, attirando sul nostro paese gli avvoltoi della speculazione.
In effetti né il M5S, né tanto meno la Lega si sono opposti al doppio cappio che la classi dominanti hanno messo al collo delle classi subalterne nel nostro paese, con la misura più realista del re del pareggio di bilancio in Costituzione e con il fatidico Fiscal Compact che imporrà, sic stantibus rebus, tagli “alla greca” al salario sociale, per diminuire un debito pubblico sempre più incontrollabile.
Così il governo rischia di avverare la sua promessa di cambiamento, nel senso del riprodursi nel nostro paese dello scenario di un commissariamento dell’esecutivo da parte di un nuovo governo tecnico “alla Monti”, pronto, con il solito supporto bipartisan e la conseguente acquiescenza dei sindacati, a imporre nuovi spaventosi sacrifici ai subalterni. Tali misure draconiane rischiano di esserci presentate ancora una volta come indispensabili per evitare uno “scenario alla greca”, con i poteri forti del capitale finanziario transnazionale, a partire dalla Troika, pronti a imporre dall’esterno quelle disastrose controriforme ai danni dei ceti subalterni che un governo nazionale non avrebbe la forza, o il coraggio di imporre.
Tanto più che quanto capitato alla Grecia non è affatto un’eccezione, ma rischia di divenire la regola, visto che il massacro sociale ivi perpetrato è stato fatto non infrangendo i princìpi di questo “faro di civiltà” che avrebbe dovuto essere l’Unione europea, ma al contrario applicandoli nel modo più rigoroso. La Bce ha, infatti, un tale potere nei confronti di paesi sotto attacco dalla speculazione internazionale, da imporre nel modo più draconiano la restaurazione liberista minacciando, in caso contrario, di dare il colpo di grazia a un sistema finanziario già in profonda crisi. Tale minaccia da parte dei poteri forti dell’Ue è riuscita a piegare uno dei proletariati più combattivi d’Europa, quello greco, che dopo una lunga serie di lotte culminante in ripetuti e riusciti scioperi generali, aveva portato al governo un partito della sinistra radicale, pronto a invertire la rotta.
Anche tale partito, che aveva riacceso le speranze in tutta Europa – tanto che anche nel nostro paese si era presentata alle scorse elezioni europee una lista Tsipras – è stato piegato dal ricatto, reso possibile dai trattati ultraliberisti su cui si fonda l’Unione europea. Al punto che il governo è arrivato a prevedere addirittura la privatizzazione di alcuni dei principali beni culturali del paese, provocando un tale scandalo e una tale indignazione che persino l’opposizione di destra è stata costretta a opporsi nel modo più reciso alla privatizzazione della stessa eredità culturale greca.
Evidentemente tali tragici scenari che si ergono all’orizzonte nel nostro paese – con in più il rischio di avere al posto di Tsipras al governo il leader della destra radicale – non è ovviamente il prodotto di un destino cinico e baro, ma al solito di rapporti di forza fra le classi sociali, impegnate in una lotta che costituisce, per le società divise in classi, il motore della storia. Da questo punto di vista, la situazione si presenta quanto mai preoccupante. Entrambe le forze della sinistra politica, riformista e radicale, si sono spaccate, allargando il vuoto creatosi nella rappresentazione sul piano politico degli interessi delle classi subalterne, sempre più sotto attacco in quanto stanno continuando a perdere la propria coscienza di classe.
In tale vuoto politico rischia di trovare spazio il populismo di “sinistra” di De Magistris che, in vista delle prossime elezioni europee, non trova di meglio che lanciare una Coalizione civica nazionale, ovvero una proposta sostanzialmente apolitica e interclassista, che di certo non arginerà la decrescente consapevolezza di classe dei subalterni. Per altro l’iniziativa è stata lanciata sotto le insegne del suo movimento, con un nome che è tutto un programma (Dema), con un personalismo del tutto fuori luogo per rimettere in discussione rapporti di forza fra le classi mai così sfavorevoli al proletariato. De Magistris mira a costruire “un fronte popolare democratico senza confini politici predeterminati”, rinunciando così a coprire, anche con una semplice proposta socialdemocratica, la prateria apertasi a sinistra, tanto che l’ex magistrato sostiene di non mirare a costruire il fatidico quarto polo (di sinistra).
I punti di riferimento a livello europeo sono la principale formazione “populista di sinistra” europea, Podemos e Diem25, ovvero il movimento politico lanciato dall’ex ministro del governo Tsipras Varoufakis, con l’esplicito intento di rilanciare l’ambigua parola d’ordine di “un’altra Europa”, che esclude apriori – come del resto anche Podemos – la possibilità stessa di un piano B che, nell’impossibilità di riformare la Ue, miri a una sua spaccatura da sinistra.
De Magistris vede esplicitamente le prossime elezioni europee come un trampolino di lancio per una sua candidatura – terminato il mandato di sindaco di Napoli – alle elezioni politiche, in cui vorrebbe incarnare “l’anti Salvini”. Un proposito che si definisce in negativo, denunciando la difficoltà di definirsi in positivo, se non come l’alternativa di sinistra al populismo di destra. De Magistris, ignorando che in Italia ancora non c’è il premierato presidenzialista (lapsus freudiano?), afferma: “come premier sarei il suo opposto: credo che si debba lavorare su coesione e solidarietà”. Una coesione e solidarietà indefinite, che rischiano di essere l’ennesimo richiamo a una posizione essenzialmente interclassista.
Tale scelta di considerare le elezioni europee un semplice trampolino di lancio nella direzione delle politiche ha portato a incrinare il rapporto con Varoufakis, che punta invece tutto sulle europee, mirando a costituire un partito transnazionale. Per cui il tentativo di De Magistris di lanciare “un’opa” sulla sinistra italiana, ossia su tutto quanto si muove a sinistra del Pd e dei M5S (con i quali mantiene comunque buoni rapporti), rischiano di portarlo in rotta di collisione con Varoufakis, che mira nel suo progetto “alter-europeista” transnazionale a mettere insieme forze alquanto eterogenee, comprendenti i Verdi e i radicali, ossia tutte quelle forze che mirano a rafforzare il più possibile l’Unione europea in campo politico, mentre è contrario a qualsiasi alleanza con forze euroscettiche.
Infine, tornando a De Magistris, dobbiamo registrare una posizione ambigua su “La bocciatura della manovra economica del governo da parte dell’Unione europea”. Il sindaco di Napoli si dice preoccupato perché “per i capricci elettorali di qualcuno, rischiamo che vengano sbriciolati i risparmi di una vita dei cittadini. C’è il timore forte che il paese non sia in mani salde”. Dunque, non trova nulla da ridire sulle pressioni inaccettabili dei poteri forti sulle politiche economiche, per quanto discutibili, di un governo nazionale, in funzione dell’imposizione a ogni costo del pensiero unico dominante. Mentre povera di contenuti, apolitica, populista e interclassista è la piattaforma che contrapporrebbe a quella dell’attuale governo, sostenendo: “ci vorrebbe una manovra che metta in sicurezza l’Italia, che si sta sgretolando, una manovra vicina ai sindaci e alle esigenze dei territori”.
Bibliografia minima:
Matteo Bortolon, La gestione Ue della crisi greca “non era un golpe”, in “Il manifesto” del 24/11/2018
Alfonso Gianni, Le responsabilità del debito non salvano nessuno, in “Il manifesto” del 25/11/2018
Adriano Pollice, De Magistris lancia la coalizione civica contro “l’onda nera”, in “Il manifesto” del 23/11/2018.