Dopo venti anni si torna a parlare con nostalgia di Benedetto Craxi (detto Bettino). Si può dire che anche in questo caso la pausa sia stata appropriata…
Come spesso gli accadeva nelle sue prestazioni oratorie, infatti, Craxi azzeccava la durata delle pause tra una frase e l’altra: il silenzio veniva prolungato appena un attimo più di quanto potesse attendersi l’ascoltatore e il risultato era la cattura della sua attenzione, ben al di là di quanto fosse normale. Ne derivava un’aura di autorevolezza, al di là (o al di qua) del contenuto di quanto detto.
Il medesimo meccanismo si palesa oggi a venti anni dalla morte avvenuta in quel di Hammamet. Nel pieno di un clima da “controrivoluzione permanente” la figura del leader del “socialismo da bere” si staglia all’orizzonte come quella di un “Padre della Patria”, allora incompreso nei suoi meriti e di cui il Paese avrebbe tanto bisogno ora.
I precedenti storici
Il craxismo fu una variante di un fenomeno più volte accaduto nella storia politica delle classi sociali in Europa: personale politico formatosi a sinistra, nell’alveo delle organizzazioni del movimento operaio si mette a disposizione dell’esercito avversario, ovvero quello arruolato dal Grande Capitale.
Un esempio storico precedente può essere quello rappresentato da Gustav Noske e Friedrich Ebert, leader della destra della Spd nel periodo della Repubblica di Weimar e tra i responsabili dell’impiego dei cosiddetti Freikorps contro la LegaSpartachista di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Oppure quello di Giuseppe Saragat che per non seguire l’espulsione dei social-comunisti dal governo operata da De Gasperi, provocò la scissione di Palazzo Barberini ai danni del Partito socialista di Nenni.
Ci sarebbe anche un altro precedente, quello famoso del passaggio di Mussolini dal socialismo massimalista alla creazione dei Fasci italiani di combattimento nel 1919, ma rispetto ai casi sopra citati c’è da sottolineare in questo la presenza di un netto passaggio formale e ideologico dalla sinistra alla destra: dalla rivendicazione di una continuità alla rivendicazione del suo opposto, la rottura con il passato rivoluzionario.
Cosa fu il craxismo?
Il Partito socialista che scelse come suo segretario Craxi nel 1976, era ormai una formazione politicamente marginale, ridotta al 9,6%. Non poteva raccogliere che le briciole dei voti delle classi popolari indirizzate in gran parte al voto per il Pci e di quelle del notabilato intellettuale di matrice piccolo-borghese.
Craxi pose al suo partito l’imperativo “Primum vivere” e conseguentemente lo lanciò nel compito di rappresentare sull’arena politica ciò che sfuggiva al duopolio Democrazia Cristiana-Partito comunista. E dal punto di vista sociale ciò che risultava erano quei ceti medi frutto dell’ascesa sociale di pezzi delle classi lavoratrici o della piccola borghesia, frutto della ristrutturazione tecnologica della grande industria italiana, della sconfitta sindacale del ’79 alla Fiat e della marcia dei quarantamila di Torino, cioè della nascita di quel mito reazionario degli anni ’80 che fu il paradigma del modello italiano di sviluppo fondato sulla piccola e media impresa: il piccolo è bello del Censis.
Solo che quella roba lì, dal punto di vista elettorale non ha mai pesato molto. Il Psi di Craxi al suo apogeo colse il 14,8% alle Europee del 1989. Si pensi che alle elezioni per la Costituente del 1946 i socialisti alleati dei comunisti prendevano il 20,6%, ma certamente era un altro partito socialista in un’altra Italia.
Oltre quel segmento sociale di parvenus e di frammenti di imprenditoria aggressiva che traeva le sue risorse dallo sviluppo del mondo dei servizi, il Psi di Craxi non è mai riuscito ad andare. Il suo orizzonte è rimasto la “Milano da bere”, il mondo della pubblicità e del terziario, della moda e del “Made in Italy”, delle tv berlusconiane che negli anni ’80 ha avuto la sua celebrazione, ma il cui corpo sociale era pur sempre ridotto.
La “paccottiglia” ideologica del craxismo (Proudhon utilizzato contro Marx e contro Lenin, il garofano al posto della falce e martello) era solo un espediente o meglio una coloritura anticomunista che serviva da segnale di riconoscimento e di accreditamento presso la nuova borghesia che si desiderava rappresentare. E il segnale fu colto.
Nel 1983 Craxi divenne il primo socialista a guidare un governo italiano. Il programma di quel governo tuttavia era tutt’altro che a favore degli interessi delle classi popolari: il taglio di tre punti della “scala mobile” con il conseguente scontro con il Pci e la Cgil nel referendum, il decreto per salvare le tv di Berlusconi e lo schieramento dei missili Cruise in Sicilia contro l’Urss nel quadro di un tenace filo-atlantismo, sintetizzano bene la natura del primo governo Craxi.
In quell’ottica di rinnovamento del blocco sociale dominante, di sostegno alla modernizzazione dell’apparato produttivo capitalistico, il craxismo ebbe successo. L’abbattimento dell’inflazione da oltre il 12 a circa il 5 per cento, il tanto sbandierato traguardo del quinto posto tra le potenze industriali al posto della Gran Bretagna di Margaret Thatcher, ne costituiscono in qualche modo la testimonianza.
Ovviamente, il prezzo lo hanno pagato i lavoratori che hanno visto ridursi i propri diritti ed il proprio potere d’acquisto.
Il tradimento della borghesia
Ma si sa non c’è riconoscenza in politica. Così, caduto il muro di Berlino, l’ascesa del craxismo si è interrotta sotto i colpi di “Mani Pulite”, del cosiddetto scandalo delle tengenti, ecc. I craxiani (e Craxi stesso) hanno sempre parlato di queste vicende come di un golpe eseguito dalla magistratura e orchestrato da non meglio definiti “poteri forti” economico-finanziari.
Di sicuro, senza più la minaccia comunista, la borghesia non aveva proprio più nessun interesse a tenersi tra i piedi le burocrazie elefantiache dei partiti di massa che drenavano risorse tramite il controllo degli appalti pubblici. Il bottino era meglio non dividerlo con nessuno. Le accuse al craxismo e ai partiti della “Prima Repubblica” che provengono da intellettuali di impronta liberista sull’esplosione del debito pubblico, indirizzano in questa direzione.
Il grido di indignazione dei traditi, tuttavia, non rende d’incanto progressista un’esperienza politica che invece trasformò un partito della sinistra storica in un “cavallo di Troia” utile a inoculare i prodromi di politiche liberiste e di fiancheggiamento dei grandi processi di ristrutturazione capitalistica.
Anche sul piano sovrastrutturale le responsabilità del Psi di Craxi furono enormi. È sufficiente menzionare il costante appoggio alle tv commerciali di Berlusconi e all’impatto profondamente negativo che hanno avuto sull’identità stessa di questo paese oppure l’approccio proibizionista sulle droghe con la famigerata legge Jervolino-Vassalli che giungeva sino a punire persino la detenzione per uso personale.
La nostalgia del craxismo
Ma perché vent’anni dopo si palesano tracce così evidenti di nostalgia per Craxi? Un sentimento così robusto che si evidenzia persino nell’ultimo film “Hammamet” di Gianni Amelio dove, utilizzando la straordinaria interpretazione del leader del Psi da parte di Pierfrancesco Favino, si parla genericamente del tramonto di un uomo politico, ma dove non c’è quasi nulla della concreta storia di Craxi e del Partito socialista di quel periodo.
Ecco, anche questa assenza, a mio giudizio, è una forma di riverenza per il sentimento nostalgico: perché privilegia l’esposizione del dramma umano e delle qualità personali alle asperità dei dati storici.
Il craxismo riassume una valore nell’Italia di oggi perché liscia il pelo dei ricordi di classi medie allo sbando e ricorda loro l’epoca in cui si poteva sperare in una possibile promozione sociale facendo leva sulle casse dello Stato. Il pareggio di bilancio, il Fiscal compact e l’Europa matrigna erano ancora lungi da venire… muovevano solo i primi passi. È indicativo in questo senso l’elogio pubblico di Craxi che va facendo Diego Fusaro, confondendo il clientelismo della “Prima Repubblica” con il socialismo.
Certo, l’uomo aveva indubbie doti politiche dal punto di vista della determinazione, del coraggio e del “fiuto” tattico e ciò lo mostra come un gigante rispetto a certi suoi attuali epigoni. Craxi allestì anche una politica estera per certi versi dignitosa e persino filo-araba nel caso della questione palestinese e del confronto con Washington a Sigonella e della vicenda che portò al bombardamento di Tripoli da parte degli Usa per sopprimere Gheddafi: sempre però nell’ambito di una scelta atlantista inequivocabile.
Tuttavia, questi talenti a quale fine vennero spesi? Certamente a quello della stabilizzazione modernizzante e autoritaria del capitalismo italiano. Un disegno che includeva ovviamente il suo progetto di “Grande Riforma” istituzionale in senso presidenzialista con l’annesso progetto di soglie di sbarramento per l’accesso in Parlamento, anche se gli va riconosciuto il merito di non aver avuto in nessuna simpatia il sistema maggioritario.
D’altra parte è forse un caso che parte rilevante del personale politico craxiano abbia partecipato alla fondazione di Forza Italia e del cosiddetto centro-destra? Come ha ammesso un ex-craxiano del Pd, a commemorare il segretario del Psi ad Hammamet quest’anno c’erano in prevalenza esponenti di quello schieramento.
Solo in questo quadro, quindi, in quello dell’austerità europea, della guerra tra poveri, della xenofobia e del Jobs Act, di Renzi e di Salvini, è comprensibile la nostalgia per Craxi… a patto di ricordare che molto è iniziato da lì e dalla sconfitta del movimento operaio alla fine degli anni ’70.