La deriva urbanistico-sociale delle “città d’arte” è sotto gli occhi di tutti. Se una volta gli esempi per eccellenza erano Venezia o Firenze, il processo di trasformazione dei centri storici in una Disneyland turistica progredisce rapidissimo e inarrestabile nell’epoca post-covid. Avendo la fortuna di vivere in un territorio ricchissimo da questo punto di vista, non posso non notare come ormai anche le cittadine, i paesi, addirittura i borghi di maggior richiamo si siano adattati alla tendenza in atto. Le conseguenze sono a tutti note:
1) Spopolamento del centro storico da parte dei residenti e trasformazione di case e appartamenti in residenze turistiche (tra l’altro prigioniere di sensali internazionali che si accaparrano una bella fetta del bottino e che non pagano tasse in Italia).
2) Trasformazione di tutti i negozi in servizi per i turisti: bar, ristoranti, boutique, souvenirs, ecc.
3) Conseguente morte civile e sociale dei centri, letteralmente desertificati da questa dinamica, trasformati in un museo a cielo aperto attraversato da torme di turisti, per lo più stranieri (si ha a volte la sensazione di essere all’estero al punto che anche agli italiani gli esercenti si rivolgono in inglese).
Se questo è il quadro, ne possono derivare alcune spontanee considerazioni, potenzialmente condivisibili, ma a ben vedere sbagliate.
La più comune è quella destrorso-moralistica che teme che vengano cancellate le nostre “radici” [1] di fronte a una omogeneizzazione indistinta da parco giochi culturale. Questo è, alla fine, il ragionamento un po’ strapaesano di chi pensa che determinati luoghi siano “sempre” stati come li si è conosciuti negli ultimi trenta anni. Queste fantomatiche radici non tengono conto delle grandi fratture storiche che hanno trasformato profondamente il territorio e la società nel corso del tempo, in particolare, in Toscana, negli anni ‘50 e ‘60 quando con la fine della mezzadria è letteralmente scomparso un mondo che era esistito con scarsi mutamenti per circa sette secoli. Ignari o non veramente consapevoli di tutto ciò, i nostri tradizionalisti gridano al cambiamento antropologico perché hanno chiuso il baretto sotto casa dove andavano a prendersi una birretta da ragazzi. Se la percezione del problema è giusta, è completamente fuori strada la prospettiva.
Non c’è niente di antropologicamente deformante nel fatto che i territori, le città, i rapporti sociali cambino, è questa anzi la normalità del corso storico ed è lo stesso processo di formazione del nostro presente. Non c’è quindi da sognare un fantomatico bel mondo com’era. Si tratta piuttosto di decidere in quale direzione vogliamo che esso si evolva.
L’altro aspetto è che, ovviamente, in questa asettica musealizzazione del nostro patrimonio artistico-cuturale, l’arte e la cultura non c’entrano niente [2]. Le torme umane vanno nei luoghi che sono stati trasformati a suon di marketing e “narrazioni” in dei cult turistici. Per farsene un’idea basta stare a guardare le mandrie stanziali e passeggianti in genere condotte da una guida che parla con maggiore o minore entusiasmo a distratti ascoltatori che con lo sguardo intanto cercano i negozi per fare shopping o una gelateria/ristorante. E basta entrare in un museo dove, a eccezione di quelli a loro volta trasformati in luoghi di culto, non c’è in genere quasi mai nessuno. Qui le amministrazioni locali ci hanno messo del tempo - e qualcuno ancora fatica - a capire che “valorizzare” il patrimonio artistico non significa fare un bel museo, curare percorsi cittadini con la consulenza di storici, storici dell’arte, ecc.; significa piuttosto “creare un’esperienza”, ovvero inventarsi miti farlocchi ma facilmente digeribili collegati al luogo e poi riempirlo di bar, ristoranti, alberghi, ecc. per monetizzare (cioè marketing).
L’effetto “Under the Tuscan sun” a Cortona è un caso emblematico. È insomma un business, ancora migliorabile sotto molti aspetti: per esempio in inverno il parco giochi chiude; oppure, dato che quello che si vende è la città o il territorio, il negozio è nelle mani delle amministrazioni locali che in quanto a gestione imprenditoriale e managerialità spesso non sanno che pesci prendere. Oppure potrebbe essere riferito il caso di Volterra, afflitta da identici problemi, in cui l'Amministrazione comunale ha investito nel marketing della candidatura a capitale della cultura e, non avendo vinto la lotteria, si è consolata del contentino regionale: capitale toscana della cultura. Ebbene come promozione culturale ha programmato tagli agli orari di apertura di alcuni musei comunali e al trattamento del personale, già super sfruttato, delle cooperative che vi gestiscono servizi in appalto.
Insomma, nient’altro che un settore di investimento con modalità peculiari che hanno conseguenze sociali e urbanistiche determinate. Dunque, senza girarci tanto intorno, su questo si deve ragionare: è un buon business? Gli effetti collaterali che ha sono superiori o inferiori ai vantaggi che apporta?
La premessa più generale è che in questi territori non si tratta tanto di capire se il business è buono o cattivo, ma di prendere atto che non ci sono vere alternative. Dato che bisogna pur vivere, si fa leva su quello che c’è e che funziona. Lasciando sostanzialmente al caso la gestione economica del paese, inevitabilmente finisce per emergere la soluzione più a portata di mano e apparentemente più conveniente. Il primo punto è dunque quello della politica economica nazionale, se ha o meno delle prospettive e dei piani di sviluppo, di impiego, di creazione di reddito, ecc., nella quale si possa quindi valutare se i vantaggi/svantaggi del parco giochi culturale siano migliori o peggiori rispetto ad altre scelte.
Perché, oltre a quelli menzionati, ci sono ulteriori svantaggi: il settore crea lavoro stagionale, per sua natura precario; il settore è a basso valore aggiunto che va tutto nelle tasche dell’imprenditoria (spesso legata a piattaforme straniere) e poco dalla parte del salario (oltre che stagionale infatti questo tipo di occupazioni è in genere estremamente “flessibile”). Infine, il settore dipende in tutto e per tutto dalla capacità di spesa di terzi e dal loro volere; è quindi soggetto alle mode delle “narrazioni” ma soprattutto alle crisi nel corso delle quali le prime cose che si tagliano sono i beni effimeri. Tra mangiare e andare in vacanza in genere si preferisce mangiare.
Per fare scelte alternative a quella del parco giochi turistico ci sono dunque validi motivi. Bisogna però avere alternative che sono possibili solo con politiche economiche e industriali gestite a livello nazionale. Se invece si intende proseguire con questo tipo di turismo, bisognerà comprarsi un grembiule e prepararsi a diventare i camerieri dei ricchi di mezzo mondo. Se una volta anche per questo bisognava emigrare, finalmente potremo essere camerieri a casa nostra!
Note:
[1] È molto interessante come già Carducci nel 1877 anticipasse questi toni in parte quasi apocalittici commentando le reazioni di una turista inglese e di un ciociaro di fronte alla Terme di Caracalla. La prima rappresenta in nuce il futuro turismo di massa straniero, il secondo l’autoctono ignaro del patrimonio che ha di fronte (o che oggi sfrutta sì economicamente, ma senza “rispettarlo” nella sua grandezza storica). Per entrambi il buon Giosuè invoca la “febbre”! Criticato per questi accenti un po’ forti, da gran furbacchione qual era, in edizioni successive “spiegherà” che ce l’aveva con gli speculatori edilizi! (cfr. G. Carducci, Dinanzi alle terme di Caracalla, da Odi Barbare, in Poesie, Bologna, Zanichelli, 1906. pp. 795-797; la “spiegazione” a p. 893).
[2] Per questo rimando a quanto già a suo tempo scritto su La città futura. Vedi Fenomenologia della Ferragni. Lotta di classe e ideologia nel capitalismo crepuscolare e Una notte al museo? Alta cultura e capitalismo crepuscolare (ora raccolti in R. Fineschi, Capitalismo crepuscolare. Approssimazioni, 2022).